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Israele, cosa è cambiato nella Terra Promessa (2)

Una finestra sul mondo

Israele

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Di Nicola Rubiu

Benvenuti alla seconda puntata del nostro viaggio tra le vicissitudini del Vicino Oriente, sotto la guida attenta del Dott. Rubiu, esperto di geopolitica e di relazioni internazionali.
Oggi ci addentreremo nell’evoluzione sociopolitica di Israele, dalla sua fondazione fino ai giorni nostri.
In un contesto geopolitico tanto delicato e complesso, è fondamentale affrontare questi argomenti con la massima attenzione e rispetto. Alla luce degli eventi recenti, desideriamo sottolineare che la redazione di Newsarde non ha preso posizione in merito alle questioni trattate. Il nostro obiettivo, come sempre, è quello di fornire informazioni accurate e imparziali, mantenendoci neutri e liberi da condizionamenti.
Vi invitiamo a unirvi a noi in questo viaggio di scoperta, con la speranza di offrire una prospettiva equilibrata e approfondita su una regione che continua a essere al centro dell’attenzione mondiale. LA REDAZIONE

 

Lo stato ebraico non è più lo stesso.
Nato come possibilità di salvezza per quegli ebrei che, a seguito dello shock della seconda guerra mondiale, guardavano al territorio del Sinai come la Terra Promessa dai loro padri, definiti “ashkenaziti” originari dell’Europa centrale (non un caso che il vero cognome dell’attuale e redivivo primo ministro Bibi Netanyahu sia in realtà Mileikowsky, di evidente discendenza polacca), stabilizzatisi lì in un mondo totalmente alieno alla loro storia e identità, per niente uso ai costumi occidentali, si sente impotente di fronte a cambiamenti tanto evidenti quanto profondamente strutturali, perché incisivi nella sostanza di quella collettività, nel suo modo di stare al mondo. La demografia non è infatti materia dell’adulare politico, della propaganda dei leader; impossibile da mascherare man a mano che porta a luce i cambiamenti nell’età mediana di un popolo, nella sua densità o distribuzione sul territorio, ne palesa spesso capacità e aspetti che al normale e fallace occhio umano non subito appaiono leggibili ed evidenti. Fondato pertanto su matrice europea, pur rimanendo per larga parte russofono senza mai essere appartenuto allo spazio d’influenza sovietico durante la guerra fredda, Israele sta sempre di più mutando la sua sostanza: allargandosi verso la Cisgiordania negli ultimi anni, quindi annettendo a se territori ora abitati principalmente da coloni che non rientrano nel canone etnico dei fondatori, si è ritrovato quasi improvvisamente a gestire porzioni di terre storicamente arabe, vertendo la sua società verso un puzzle di etnie alquanto variegato, dove diverse popolazioni (mizrahìm, “oriente” in ebraico), estranee prima di quel momento a costumi di importazione non adattabili ai loro, hanno creato realtà parallele, così impedendo agli apparati governativi di trovare gli strumenti efficaci per tenere insieme entità diverse lungo la stessa porzione di terra.

Tanto sverzare ad oriente segna la demografia dello stato degli ebrei, ormai guidato da una crescita demografica che vede aumentare nei prossimi decenni (forse già il 2040?) gli israeliani di etnia appunto araba e nordafricana, questi diventeranno maggioranza nella popolazione: capovolgimento vertiginoso, glossa senza pari per chi mise in una terra così esotica le prime radici con in mente una visione sionista e apertamente socialista. Cifra culturale e antropologica perfettamente compresa da Netanyahu, che tornato a guidare l’esecutivo, pur essendo originario sia da padre che da madre di un paese in Polonia, se ne è fatto principale rappresentante attraverso una proposta di riforma che intende accentrare i poteri del governo subordinando gli apparati giudiziari, così lasciando intendere quanto per il futuro Israele dovrà venire prima la religione (la Torah), sopra persino la giurisprudenza. Effetto del vento levantino, dove la religione stessa è longa manus del potere politico. Sussurro indicativo di una visione teocratica, di cui oggi è emblema la repubblica islamica, perché determinata da una visione massimalista della realtà, diametralmente opposta all’Israele per come lo conosciamo fino ad oggi, con la Corte suprema nata proprio per controllare eventuali pulsioni generate dal fanatismo religioso e la Guardia nazionale pronta ad intervenire nel caos, quando la sicurezza dello stato viene minacciata. Niente di tutto ciò potrebbe rimanere nei prossimi anni. Visione subito accolta da ebrei ultraortodossi e arabi di Cisgiordania, pronti a rifiutare la dottrina sionista ed in aperta collisione con la parte bianca e laica che abita nelle grandi città, impallidita di fronte alla possibilità di non rappresentare più i gangli del potere e l’identità di Israele, gridando per le strade contro la svolta autoritaria del governo, per ora messa solo in sordina per placare gli animi.

Sordo, infatti, alla richiesta americana di schierarsi in favore delle democrazie condannando l’invasione russa dell’Ucraina, primo paese ad esser volato a Mosca per accreditarsi come mediatore, Israele va pertanto oscurando la sua postura originaria, incline a dialogare con le monarchie arabe, in pesante funzione anti – iraniana. La fallimentare assimilazione degli arabi israeliani porterà negli anni a venire ad una nuova narrazione del paese, rinnegando quella che fu la sua storia ancestrale, e facendo cosí peggiorare le relazioni con i palestinesi, che si vedranno costretti in uno spazio prima o poi conquistato da popolazioni della loro stessa matrice etnica. Incubo da apocalisse.

Ritenuti ancora minoranza nel paese, tra il 1948 e il 1978 arabi orientali e africani si spingevano verso il Sinai e la valle del Golan, oltre l’Egitto, espulsi dai loro paesi a seguito dei tumulti interni quando lo stesso Israele iniziava ad occupare i territori in cui erano stanziati gruppi palestinesi. Perennemente disprezzati dagli israeliani askenaziti, perché non inclini a modificare i propri cognomi e costumi alla maniera occidentale; quindi, sovente ghettizzati ed esclusi dai ranghi alti del potere, appellati non più “sefarditi” (in quanto provenienti da Ponente) ma mizrahim (orientali), termine tanto generico quanto razzista.

Il continuo spingersi di Israele verso nuove terre, specialmente a seguito della guerra dei sei giorni (5 giugno – 10 giugno 1967), forzava ulteriormente il confronto sul fronte interno. La comparsa, ancora in quegli anni minoritaria, degli ultraortodossi religiosi sarà foriera degli scontri sia di ieri che di oggi. Chiamati per via del loro rigore nell’osservanza della Torah “haredim”(letteralmente “coloro che tremano al cospetto di Dio”), fedeli cioè alla parte arcaica della Bibbia, per cui lo stato degli ebrei nascerà solo dopo la venuta del messia, si ponevano da subito in netto contrasto con la fondazione del paese e di conseguenza con il suo movimento sionista, poi però accettato in quanto salvatore, con essi stessi migranti verso Gerusalemme a seguito dell’olocausto ma ritenuti ancora minoranza in quanto dediti allo studio dei precetti religiosi ebraici anziché al servizio militare, pertanto facilmente trascurabili. Pericolosa illusione, oggi centrale nell’ontologia del paese. Eppure, ora i mizrahim costituiscono il 62% della popolazione israeliana, ne determinano la maggioranza, grazie soprattutto ad un elevato tasso di fertilità, ossia doppio rispetto ai decenni precedenti, con gli haredim invece al 13%: né askenaziti, né laici, religiosi per l’80%. Patente cambiamento non più in veste occidentale, indice dell’Israele che sarà, con questi pronti a battersi per mettere da parte la vecchia struttura del paese e imporsi così nella vita pubblica e nel governo, profittando di forze armate ormai penetrabili anche da loro, con gli alti ranghi illusoriamente paghi di quanto ottenuto nell’ultimo periodo, nell’erronea convinzione che il ritiro da Gaza nel 2005 e lo sfratto dei palestinesi dai territori oggi abitati proprio da coloni bastasse a placare tanta varietà etnica e di visione del mondo.

Cavalcare l’onda della metamorfosi per non sprofondare nell’abisso. Incubo che da sempre anima lo stato degli ebrei dalla sua fondazione. Vertere ad altro significherebbe abdicare a se stessi, preda continua di interessi altrui, che minano l’esistenza del paese. Iran e nemici hanno infatti colto perfettamente tutto questo nell’ormai precaria stabilità di Israele, per la prima volta colpito veramente nella certezza di rappresentare uno dei paesi militarmente più forti sullo scacchiere internazionale, eppure il 7 ottobre dimostratosi fallace, per miglior adattamento di Hamas a territori che gli sono autoctoni, contrariamente alla collettività ebrea, perché appunto giunta lì con diverso piglio e sguardo sul mondo. Effetto del vento levantino. Preludio ad un nuovo capitolo.

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