Inizia oggi una serie di pubblicazioni a cura di un esperto di politica internazionale, che ci guiderà attraverso i complessi scenari geopolitici del nostro tempo. Il Dott. Nicola Rubiu, con i suoi articoli ci aiuterà a comprendere gli intrecci che stanno caratterizzando il mondo.
Gli effetti del “mondo contro” (leggi antioccidentale) di fronte al quale ci siamo svegliati dopo il 24 febbraio dell’anno scorso, quando il Cremlino ha deciso di sparigliare le carte dell’ordine mondiale a stelle e strisce deciso con la fine della guerra fredda via suicidio dell’Unione Sovietica, si dispiegano in ogni angolo del mondo. Dall’Europa all’Asia, passando per i golpi africani benedetti dai miliziani del gruppo Wagner, massimo pretesto per insidiarsi in territori esotici fino a un secolo fa inesplorati per Mosca così ergendosi a detentori di una causa di cabotaggio superiore: soprattutto contro gli europei bianchi, rei della lunga arretratezza di Africa e Asia. Unire quindi le forze dinnanzi l’aquila americana, dal 1945 ossessionata dal pensiero di impedire che in un qualche angolo del pianeta, ovvero continente, sorga una potenza capace di attraversare l’oceano di casa e minacciare forza e sicurezza statunitense dalla baia di San Francisco. Con l’implosione dell’impero sovietico e la riunificazione della Germania, Washington si è ritrovata quasi improvvisamente da sola a gestire terre e mari di questo pianeta, alla fine senza neanche volerlo ma comunque nella convinzione che per poterci riuscire servisse – politologia docet? – che le altre collettività accettassero il verbo della democrazia. “The war on terror”, come nel duemilauno Bush figlio aveva definito la risposta americana agli attacchi dell’11 settembre e dunque l’invasione di Iraq e Afghanistan nel 2003 per rovesciare regimi islamici che secondo il Pentagono erano collusi con i terroristi di Al-Qaeda. Salvo poi trovarsi impantanata proprio lì dove i nemici di mamma America volevano: in totale confusione, per la prima volta senza un vero nemico (dato che invece l’Urss lo ero stata sul serio fino a dieci anni prima), con un dispiegamento di forze che solo venti anni in Medio Oriente hanno alla fine rivelato di essere state inutili.
Quando si assurge nel mondo ad egemone, lo si diventa nel momento in cui si viene riconosciuti tali dalle altre potenze. In fin dei conti è proprio l’identità dell’essere umano come soggetto esistente ad avere una collocazione nello spazio e nel tempo, quindi nella storia: quando io mi definisco “altro” dagli altri, sto pertanto definendo la mia identità, dovendo tener conto che il mondo fuori da me esiste. Stesso discorso, non fosse altro per il fatto che le collettività umane sono fatte appunto solo da umani, per gli imperi nel corso dei secoli. Gli Stati Uniti sono riconosciuti principale potenza del nostro secolo esattamente dal resto del mondo. Di conseguenza se Washington non avesse una sua sfera di influenza e persino nemici che oggi vogliono minacciare il suo primato, chiaramente Cina e Russia, semplicemente non esisterebbe: non può fare a meno di avere nemici, ad un punto tale che l’idea della “fine della storia”, come Francis Fukuyama aveva battezzato gli anni successivi al 1991, quando la forza americana pareva invincibile, è stata una pura sia pure bellissima illusione. L’America non è quindi più America; la sua potenza e quindi sovraesposizione nel globo ne ha consumato le fondamenta, cioè la sua stessa identità, ad un punto tale che la vera minaccia alla supremazia statunitense è essa stessa. Dopo, quindi, trenta anni di incontrastato primato planetario si è avverato quello che a Washington si temeva: la forza americana può essere insidiata. Il clamoroso ritiro dall’Afghanistan nell’agosto 2021 ha dimostrato quella forma di fatica imperiale da cui prima o poi vengono attraversati tutti gli imperi nella storia: da cui la riluttanza, in verità già iniziata sotto l’amministrazione di Obama con l’intenzione di ritirarsi una volta per tutte proprio dai territori dei talebani, di intervenire come prima, ossia in modo netto e diretto, nelle crisi globali. Un cambio di passo tanto sbandierato da Donald Trump e sugellato ora dal presidente Biden con il rifiuto di intervenire in Ucraina: non solo oggi la grande sfida è con la Cina, ma intervenire anche al di fuori del contesto indopacifico è cosa che non si può più fare da soli.
Il paradigma che segna questi ultimi anni, gli Stati Uniti che intendono essere meno presenti nel mondo, ha aperto nuovi scenari, ha cioè riportato alla ribalta le aspirazioni di soggetti che oggi intendono ritagliarsi i propri spazi a danno proprio delle disattenzioni e stanchezze occidentali. Se in Europa questo è stato dimostrato dalla Russia con l’invasione dell’Ucraina, in Medio Oriente è l’Iran il soggetto che dalla rivoluzione komeinista ad oggi ha rivalutato la sua posizione nel mondo. Certa che lo spazio mediterraneo che riguarda l’antica Mesopotamia sia sempre stato sotto il suo dominio, la repubblica islamica si incarna massima forma dell’anti Occidente nel Medio Oriente. Con la paura di essere tagliata fuori dall’influenza in quella parte di mondo attraverso i dubbi di Washington sul rinnovo dell’accorso sul nucleare, difficilmente credibile per un paese che ad oggi ancora non ne dispone ma utile per confermare il dialogo con l’egemone, e da ultimo gli accordi di Abramo, già sugellati dall’allora presidente Trump nel 2020 per normalizzare le relazioni tra quei soggetti a favore di arabi e Israele. Scherno insopportabile agli occhi di Teheran. Il ritorno, mai veramente sopita, della crisi tra Israele e Palestina è figlia proprio di questa dinamica e dell’ostilità iraniana verso Tel Aviv, quel “piccolo satana” così appellato dalla guida suprema sciita Ali Khamenei. Non avendo la forza e la volontà di intervenire direttamente contro Israele, la repubblica iraniana da anni convince, anche finanziariamente, il regime libanese di Hezbollah e il gruppo paramilitare di Hamas in Cisgiordania ad inveire contro lo Stato ebraico, per debilitare quest’ultimo e segnare pertanto la fine delle intrusioni occidentali là dove tutti gli imperi hanno fallito nel tentativo di sottomettere quelle popolazioni. Lo sappiamo: gli scontri tra ebrei e palestinesi hanno segnato gli ultimi settantacinque anni di storia in Medio Oriente, fino a rappresentare a livello globale i sensi di colpa di noi occidentali e i soprusi dei forti contro i più deboli. Eppure, solo ora che Hamas ha rivendicato quanto accaduto pochi giorni fa in un territorio che va da Gaza al sud di Israele ci siamo ricordati che, a differenza degli ultimi ottanta anni in Europa, lì la storia, in tutta la sua atrocità, non è mai finita. Il conflitto nella Striscia di Gaza rischia seriamente di allargarsi, facendo ripiombare gli americani nell’incubo di dover ritornare, questa volta sostenendo lo storico figlioccio, Israele appunto, che forse per la prima volta è stato colto veramente di sorpresa, nonostante i suoi servizi segreti siano tra i più tecnologicamente evoluti del pianeta.
Che fare quindi? Sostenere direttamente Tel Aviv pare mossa assai ardua: nonostante infatti Washington abbia inviato in quelle acque le portaerei USS Gerald Ford e USS Dwight Eisenhower, nelle stanze della politica a stelle e strisce non si aspetta altro, quasi si trattasse di un secondo scenario simile all’Ucraina, che Netanyahu accetti un possibile cessate il fuoco, e il motivo è presto detto: un intervento diretto farebbe scaturire anche nei paesi arabi la convinzione che ancora una potenza occidentale sia lì per usurpare quei territori, cosí galvanizzando le pretese politiche e strategiche di Teheran, aspirante a convogliare le forze arabe, con cui storicamente non è mai stata in sintonia, proprio contro gli Stati Uniti. In tale ottica è necessario anche valutare il fatto che un attacco come quello perpetrato da Hamas è potuto riuscire non tanto per la forza delle armi nelle mani di questo gruppo terroristico quanto per le inefficienze israeliane: un esercito che iniziava a disabituarsi allo scontro militare si è fatto trovare impreparato, ma non c’è solo questo. La crisi identitaria che sta attraversando Israele, la sua questione interna, ne mina radici identitarie e stabilità; il ceppo etnico ebraico, di origine quindi europea e fondatore proprio di Israele (quelli che vengono definiti “ashkenaziti”) da qui a qualche decennio non saranno più alla testa della società israeliana, venendo superati demograficamente da arabi israeliti che nel tempo sono stati inglobati all’interno dello Stato ebraico ma a cui è stato vietato l’accesso a diritti e cittadinanza, fino ad ora appannaggio appunto degli ebrei. Da qui la riforma che lo stesso Netanyahu intende portare avanti e che condurrebbe Israele verso una via orientale, non più pertanto occidentale di matrice europea quale fu quella dei suoi fondatori nel secolo scorso ma basata su un maggiore accentramento dei poteri in mano agli apparati governativi. Un problema di ordine pubblico nello Stato degli ebrei potrebbe di conseguenza avere eco anche in casa americana, tanto che infatti, malgrado il consenso in favore di Israele sia maggioritario negli USA, non è detto che alla lunga rimanga tale: non è un caso che la prima opzione percorribile per gli apparati diplomatici e governativi a Washington sia proprio la tregua.
Israele e Stati Uniti vivono quasi in simbiosi, le azioni dell’uno hanno conseguenze e provocano risposte nell’altro. Da qui un enorme paradosso: esattamente come Washington, anche Tel Aviv deve dimostrare di essere ancora capace di incutere paura nei suoi avversari tramite la forza militare, dunque la deterrenza. Non farlo convincerebbe alla lunga gli antagonisti a profittare delle sue deficienze. Farlo a convogliare le loro forze contro lo Stato degli ebrei. Ed è proprio questo dilemma che ha riportato una striscia di terra come quella di Gaza ad essere uno degli stati di tensione più pericolosi del nostro pianeta.