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SARDEGNA SIMBOLICA – «Nara Cixiri» ossia «dì Shibboleth»: l’origine biblica della storica frase sarda. (11)

Una rubrica dedicata alla spiritualità del popolo sardo

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Di Lorella Marietti

Tutti sanno che il 28 aprile di ogni anno si ricorda “Sa die de sa Sardigna”, cioè l’insurrezione popolare del 1794 contro il governo sabaudo. Secondo la tradizione, i Cagliaritani utilizzarono uno stratagemma linguistico per individuare i Piemontesi sparpagliati nel capoluogo e rispedirli nella loro regione: il famoso test del «Nara Cixiri» – «dì ceci». Quelli che non sapevano pronunciare bene la parola “cixiri” rivelavano di non essere Sardi e così venivano imbarcati a forza.

 

Forse, però, non tutti sanno che questo sistema di riconoscimento appare in un episodio biblico che descrive la battaglia tra due tribù, gli Efraimiti e i Galaaditi. Quando i primi, sconfitti e fuggiaschi, cercarono di varcare il fiume Giordano mescolandosi con i vincitori, furono intercettati e identificati tramite la parola «shibboleth» (“spiga”), la cui pronuncia sbagliata gli costò la vita.

 

In entrambi i casi si trattava, per gli stranieri, di una parola difficile da ripetere in modo esatto e rapido, avendo un’articolazione fonetica molto tipica e poco diffusa presso altre comunità. Una sorta di contrassegno linguistico che diventava anche una “parola di prova” o una parola-bandiera.

 

Lo schema del racconto biblico è dunque lo stesso, pur essendo diversa la sorte finale di chi sbagliava la pronuncia: «quando uno dei fuggiaschi di Efraim diceva: «Lasciatemi passare», gli uomini di Gàlaad gli chiedevano: «Sei un Efraimita?». Se quegli rispondeva: «No», i Galaaditi gli dicevano: «Ebbene, dì Scibbolet», e quegli diceva Sibbolet, non sapendo pronunciare bene. Allora lo afferravano e lo uccidevano presso i guadi del Giordano» (Libro dei Giudici 12, 5-6).

 

L’impressione suscitata da questa narrazione, scritta verso il 1030-1010 a.C., è talmente forte da aver generato nel tempo riflessioni multidisciplinari e aver lasciato tracce anche in altre culture. Così il termine shibboleth è entrato a far parte di altri lessici per indicare una parola o locuzione che può essere usata come segno di riconoscimento di una identità linguistica, geografica, sociale e culturale.

 

Dal 1994 la parola shibboleth è registrata nel vocabolario di italiano della Enciclopedia Treccani, mentre nel mondo britannico è stata usata per la prima volta come sinonimo di provenienza sociolinguistica nel poema “Don Giovanni” di Lord Byron (1843). In tempi recenti il termine è stato travasato nel linguaggio informatico per connotare un software in grado di offrire all’utente una identificazione unica per accedere a tutte le sue risorse informatiche.

 

Oltre a ciò, l’uso di shibboleth è stato metaforizzato per indicare i gerghi esclusivi che contrassegnano l’appartenenza a un gruppo, o i linguaggi tecnici la cui conoscenza accomuna gli iniziati a una certa arte, scienza, professione o anche gioco.

 

Infine, dal punto di vista antropologico e filosofico, shibboleth è simbolo della parola che divide oppure unisce, che addita l’amico o il nemico, che dà la salvezza oppure la morte, a seconda del lato in cui ci si trovi. Nella mostra “Sag Shibboleth!” (dì Shibboleth) organizzata nel 2020 dal Museo ebraico di Monaco, artisti di varie nazionalità sono stati invitati a esplorare il tema degli scontri o incontri tra due mondi, della costruzione di confini o di ponti, dell’idea di identità e alterità, di esclusione e inclusione.

 

Emerge così per questa parola, e per ciò che rappresenta, una valenza paradigmatica universale, come dimostrano numerosi casi documentati di “shibboleth” verificatisi nella storia umana, sia bellici che no. Vale la pena ricordarne qualcuno a titolo esemplificativo.

 

Il primo di questi, similissimo a quello del popolo sardo per l’uso della medesima “password”, riguarda i Vespri siciliani del 1282 quando i Palermitani si ribellarono agli Angioini e iniziò una vera e propria caccia ai Francesi. Si racconta che questi cercavano di confondersi con il popolo ma i Siciliani mostravano a tutti un pugno di ceci – «cìciri» in siciliano – intimando di pronunciarne il nome e quelli venivano traditi dal loro accento francese, poiché dicevano scisciri, e quindi uccisi.

 

Il secondo caso avvenne nel 1937, nella Repubblica Dominicana, quando il termine spagnolo perejil (prezzemolo) venne utilizzato come shibboleth dai dominicani di lingua spagnola per riconoscere gli Haitiani creoli, durante la carneficina che prese il nome di questa pianta (Massacro del prezzemolo).

 

Il terzo caso di shibboleth esprime invece un aspetto non conflittuale, anzi perfino ludico, e si tratta di una tradizione regionale. Infatti, come evidenzia il linguista Alberto Ghia, in Piemonte è nota l’espressione dialettale «dui̯ puˈvruŋ baˈɲa nt lˈøli» (due peperoni bagnati nell’olio) come prova di appartenenza alla comunità parlante piemontese. Di solito la si fa pronunciare a coloro che non sanno parlare il dialetto – dunque immigrati e forestieri, oppure giovani – con lo scopo di sfidarli bonariamente o anche farsi due risate insieme per gli strafalcioni fonetici.

 

L’esperta di terminologia Licia Corbolante cita pure un esempio contemporaneo di shibboleth in riferimento alla guerra in Ucraina, riportato in diversi tweet. È il nome del pane tipico ucraino – paljaˈnytsja – che i russofoni non ucraini faticano a pronunciare e perciò è una sorta di parola d’ordine per individuare eventuali infiltrati. Questo pane e il suo valore di shibboleth ha ispirato anche un progetto dell’artista ucraina Zhanna Kadyrova.

 

È interessante notare che in tutti questi casi le parole utilizzate per il riconoscimento “dell’altro” riguardano dei cibi: ceci, prezzemolo, peperoni, pane. Lo stesso termine shibboleth ha nella lingua ebraica originaria il significato primario di spiga (in altri contesti significa fiume e corrente). Inoltre, si tratta sempre di alimenti in qualche misura identitari.

 

Ad esempio, in Sardegna il cece, per gran parte dei secoli XVIII e XIX, era il legume più coltivato dopo la fava e si distingueva per l’elevatissima differenziazione delle varietà locali, ognuna selezionata dalle rispettive comunità o anche dalle singole famiglie di agricoltori, secondo le caratteristiche ambientali dei luoghi di coltivazione. Dunque, un prodotto capace di rappresentare bene tutte le diversità e le unicità degli abitanti della Sardegna.

 

Anche in Sicilia il cece occupa un posto significativo nella tradizione regionale, sia perché è un cibo popolare che ha sfamato i Siciliani nei periodi di magra ed è diventato l’ingrediente principe di varie specialità, sia perché è stato protagonista nel 1711 della famosa “guerra dei ceci”, ossia la lunga controversia liparitana che scoppiò nei confronti degli esattori del Viceré.

 

Per quanto riguarda il prezzemolo, utilizzato come shibboleth dal dittatore domenicano Trujillo di lingua spagnola, si può considerare che la Spagna è uno dei maggiori produttori di questa pianta mediterranea, talmente usata nella cucina nazionale che i macellai la regalano. Allo stesso modo, il peperone è un ortaggio molto coltivato in Piemonte ed è alla base di piatti e usanze tradizionali. Così pure il pane in Ucraina, terra dalle immense distese di grano, dove questo alimento è considerato una colonna portante della cucina e anche un antico segno di ospitalità.

 

A questo proposito, richiamando il significato ebraico di “spiga” per shibboleth, si può osservare che anche nella cultura ebraica sono importanti le coltivazioni del frumento e dell’orzo, da cui il popolo ebreo ricava diversi tipi di pane, parola che nell’Antico Testamento ricorre 300 volte.

Qui si scopre che la radice ebraica della parola “pane”, léchem, è la stessa di milchamà, “guerra”, come a ricordare che la lotta per il pane genera odio e divisione, cosa che si ricollega al lato conflittuale di shibboleth e alla sua cruenta degenerazione bellica.

 

Allo stesso tempo, poichè il termine ebraico “pane” indica pure il cibo in generale – essendone la componente di base, e inoltre in passato venivano spesso inseriti nel pane pezzi di carne, formaggio, olive e altro – ciò fa pensare ai diversi alimenti utilizzati dai popoli come shibboleth e al fatto che il cibo è sempre identitario, al pari della lingua.

 

Infatti, come la lingua parlata, il sistema alimentare contiene ed esprime la cultura di chi lo pratica, è depositario delle tradizioni e dell’identità di gruppo. In più il cibo è anche la prima forma di contatto tra due civiltà, poiché comporta l’abbandono momentaneo delle proprie origini culturali per affidarsi a qualcuno che prepara e offre un alimento sconosciuto.

 

L’antropologo Claude Lévi-Strauss, tra i primi a cogliere il legame simbolico tra cibo e lingua, paragona gli alimenti alle parole e vede le tecniche di trasformazione e i modi di consumo come la sintassi. Ed è molto interessante osservare che questi due aspetti, lingua e cibo, potenzialmente divisivi o unitivi, nel Nuovo Testamento vengono risolti in radice e in continuità con l’Antico.

 

Infatti, da un lato, il soffio dello Spirito ricevuto nella Pentecoste rende gli apostoli capaci di parlare le lingue degli altri popoli, così da eliminare le incomprensioni altrui, ma non le identità altrui. Negli Atti degli Apostoli le persone delle diverse nazionalità s’interrogano stupite: «Costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi li sente parlare nella propria lingua nativa?» (2, 7-8).

 

Già Isaia lo aveva profetizzato, riferendo il messaggio comunicatogli da Dio: «lo vengo per radunare tutte le nazioni e tutte le lingue» (66,18). Lo si ritrova pure nella visione finale dell’Apocalisse, quando attorno all’Agnello si radunerà «una moltitudine immensa, che nessuno può contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua» (7,9). Le lingue rimangono, ma non sono più una barriera, perché – commenta papa Francesco – tutti sono in grado di capire il linguaggio della verità e dell’amore, che è la lingua universale.

 

Per quanto riguarda il cibo e la sua potenziale conflittualità, legata a sopravvivenza e logiche economiche ingiuste, la comunità dei primi cristiani risolve il problema con una condivisione a 360 gradi, non solo materiale ma anche affettiva, psicologica e spirituale: «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune» (Atti 4,32).

 

La ricetta consisteva nel non assolutizzare il pane materiale: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Matteo 4,4 che riprende Deuteronomio 8,3), dunque l’importanza del nutrimento anche interiore e spirituale, del «Pane della Vita» che toglie la fame di infinito (Gv 6,35).

 

San Paolo scrive: «Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un corpo solo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane». Secoli dopo, l’antropologo Claude Fishler osserverà che mangiare insieme significa far parte insieme di qualcosa, proprio come suggerisce l’etimologia del termine convivium – da cum-vivere – che identifica il vivere insieme con il nutrirsi insieme della stessa esperienza.

 

Immagine: Edoardo Mulas (Mulase), Sa die de sa Sardigna, Mostra Fratelli d’Italia (2011), Catalogo Fasi.

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