Vincenzo Sulis nacque a Cagliari da Antonio e Lucia Mura e morì a La Maddalena dopo una vita movimentata che non gli risparmiò, in diverse occasioni, le amarezze del carcere. Di indole ribelle, tanto che, insofferente all’autorità paterna, all’età di diciassette anni, scelse la vita claustrale presso l’ordine dei mercedari. Dotato, però, di grande nobiltà d’animo, fu personaggio controverso nella storia sarda della fine del XVIII° secolo.
Visto il suo carattere, si capisce che anche la vita religiosa non è adatta a Vincenzo, per cui abbandona il saio e abbraccia una vita fatta di espedienti e di attività illecite, dedicandosi soprattutto al contrabbando. Durante questo periodo della sua esistenza, apprende tutti i codici della malavita, ai quali non verrà mai meno, rimanendo persona affidabile anche in questi ambienti.
Data la sua intelligenza, riuscì, comunque, a diventare notaio e ad intraprendere con successo la carriera notarile.
Nel 1793, la Francia, sull’onda della Rivoluzione, entra nell’ordine di idee di annettersi la Sardegna, strappandola ai Savoia, ed invia la propria flotta, comandata dall’ammiraglio Truguet, nel golfo di Cagliari.
Vincenzo Sulis viene ricordato per essere stato, dapprima, sostenitore di Giovanni Maria Angioi, e, dopo, uno dei suoi più fieri oppositori. Questo nel più classico ‘’divide et impera’’ degli antichi Romani, sempre funzionale al potere costituito e nel profetico spagnolo ‘’pocos, locos y male unidos’’, riferito ai Sardi.
Il Sulis si oppone energicamente alle mire francesi e riesce, grazie alle sue conoscenze negli ambienti malavitosi, a raggranellare circa 500 uomini pronti a tutto, solo nel quartiere di Stampace, a Cagliari, e facendo confluire, da ogni parte dell’isola, un esercito di 4000 armati, sfruttando un grandissimo potere personale a tutti i livelli: sia sociale che politico. Nonostante la fiducia riposta in Vincenzo Sulis, comunque, i cagliaritani, come sempre, si affidarono alla potente intercessione di Sant’Efisio, il quale scatenò una fortissima tempesta marina che fece perdere l’orientamento alla flotta francese, le cui navi finirono per cannoneggiarsi a vicenda, scampando dal pericolo Cagliari e l’intera Sardegna.
I Sardi arruolati nel Capo di Sopra, d’altronde, non nutrendo alcun afflato verso la causa del Sulis, come spesso capita per tutto ciò che non riguarda la loro vita personale, se la sono presa un po’ sotto gamba e sono arrivati in ritardo all’appuntamento. Intanto perché, man mano che si muovevano verso sud, i Sardi della montagna e della Sardegna interna si attardavano a vendemmiare le vigne che incontravano sul loro cammino, attratti dai vitigni delle dolci pianure del Campidano, ma, soprattutto, scoprirono gli inebrianti sapori del raffinato ‘’Muscatellò’’ ogliastrino.
Nell’allontanarsi dai propri territori, inoltre, si affievoliva il concetto di furto, regolato da vari proverbi sardi. Ricordiamo che il furto, in Sardegna, non resta mai impunito, a costo di innescare una escalation che potrebbe portare, inevitabilmente al delitto di sangue, soprattutto se mette a rischio l’integrità fisica. In base a detti proverbi, l’impossessarsi di cose altrui, non sempre viene identificato col furto.
I proverbi cui mi riferisco sono, per esempio, il famosissimo ‘’Furat chie ‘enit dae su mare’’ (ruba chi viene dal mare), mettendo un limite spaziale inderogabile ben preciso che porta il Sardo a diffidare di tutto ciò che viene dal mare.
Un altro proverbio famoso, che restringe, ancora, i confini del furto, questa volta verso l’interno, ma in maniera meno precisa, visto che lascia libertà di interpretazione del termine ‘’domo’’, è l’altrettanto famoso, ‘’Furat chie furat in dhomo’’ (ruba chi ruba in casa).
Altro proverbio sardo che riguarda il furto è ‘’Pro furare, sette làccanas’’ (per rubare, sette confini), ossia: il furto, in Sardegna, è tale soltanto se avviene all’interno di sette confini dal proprio territorio, mentre, aldilà, è pacificamente ammesso e giustificato, sempre dagli autori e compaesani, mentre ricomincia il conteggio ad ogni salto di confine in un intreccio infinito e inestricabile di rapporti più o meno conflittuali, perdendosi in quel mare, altrettanto, per noi, inspiegabile, rappresentato dalle famose dinamiche del mondo agro-pastorale.
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