La frequentazione delle campagne era assidua.
In campagna si imparavano, inconsciamente, le sonorità e i codici della società pastorale, per poi ricordarli per tutta la vita.
Oltre le normali e quotidiane attività inerenti la pastorizia, le mietiture, trebbiature, vendemmie, feste campestri, tosature, costituivano occasioni di incontro che avevano come fulcro il pranzo comunitario, in cui si rafforzavano parentele, amicizie e alleanze.
E’ soprattutto negli ovili che si raggiungeva la completa formazione psicologica dei Sardi.
Negli ovili si entrava in contatto con le ottave in poesia, anche italiane, con le potenti voci del ‘’canto a tenore’’, senza che ci fosse il moderno dualismo piazza-palco, con i balli (ai quali si partecipava tutti senza distinzione di età o di censo) sia propiziatori che di corteggiamento con, annesse, figure coreografiche dal potente valore simbolico (il cerchio, il labirinto, la spirale stilizzata).
Lì si entrava in contatto con le morre, con i canti monodici maschili e femminili, con la poesia popolare (‘’battorinas’’, in massima parte) e si imparava ad amare la poesia in senso lato.
Parte importante in questo processo occupa anche il recupero della memoria attraverso le narrazioni cui si assisteva tutti assieme.
Imparando così inconsapevolmente che in Sardegna è tutto musica e poesia; ad incominciare dalla sua poeticissima lingua neo-latina e dalla sua bellissima lingua agglutinante nuragica e pre-nuragica, allo sviluppo e alla conservazione della quale hanno contribuito, in modo determinante, proprio i pastori.
Avevano un repertorio mnemonico pressoché sconfinato e la massima ambizione degli stessi poeti era sentire le loro composizioni sulle labbra dei pastori: gli unici che consentivano ai versi di essere tramandati ai posteri.
E’ da questo apprendistato e dalla spinta culturale dell’ovile che nasce l’amore viscerale dei Sardi per la poesia.