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CULTURA – ASTRAZIONI DELLA LINGUA SARDA

✅ Il linguaggio del pastore è ricchissimo e vastissimo ed egli ne ha piena padronanza

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Di Salvatore Satta

E’ convinzione comune che la Lingua Sarda abbia un lessico molto limitato per quanto riguarda i termini astratti.

 

Infatti, secondo queste teorie, una società pastorale come quella sarda non può sviluppare pensieri complessi che esulino dalla vita materiale. Il linguaggio del pastore, sulla cui cultura è strutturata l’intera lingua, è, invece, ricchissimo e vastissimo ed egli ne ha piena padronanza. Essendo, la lingua, con la creazione di nuovi termini, sin dalla sua origine, un potente surrogato della realtà, non può che essere astrazione, tanto che contribuisce notevolmente ad espandere la fantasia dell’uomo.

 

Coloro che sostengono la scarsità di parole astratte nella lingua sarda, assumendo, magari inconsapevolmente, un atteggiamento razzistico o, peggio, auto-razzistico, cercano di escludere, inutilmente, il sardo dall’intera conoscenza, visto che essa è prettamente virtuale, riducendo il pastore sardo ad un essere che non ha conosciuto alcuna evoluzione, con nessuna consapevolezza del tempo e dello spazio, arrivando, dunque, a negare, perfino, le conoscenze astronomiche che sono alla base di tutti i nostri manufatti architettonici.

 

Con la lingua fa la sua comparsa anche la bugia, fino ad allora sconosciuta, in quanto se prima il concetto espresso da chi parla coincideva con quello di chi ascolta, adesso con la lingua, anche se foneticamente i due concetti sono uguali (per esempio: casa), il concetto di chi ascolta non necessariamente è lo stesso di chi parla. Cosicché il pastore sardo scopre tutte le potenzialità del linguaggio, sia nel bene che nel male, e impara a difendersene, evitando di farne un uso ingenuo.

 

I primi ad essere impegnati in questo apprendistato, erano ovviamente, i bambini. I quali, sin dalla più tenera età, ricevevano, non solo carezze e vezzeggiamenti, ma anche suoni, voci, parole attraenti, filastrocche non sense, canzoncine e poesiole ironiche costituite da termini ingenuamente e infantilmente espliciti, che si fissavano nella memoria. Poi l’addestramento comprendeva i giochi, basati su parole che sono vere e proprie bugie, con le quali si richiamavano alla mente concetti contrari anche alle leggi di natura: per esempio si giocava a ‘’s’àinu ‘olat’’, (l’asino vola), insegnando così a diffidare delle parole e del loro ambiguo significato: con le parole si può dire tutto e il contrario di tutto.

 

A diffidare della lingua dovevano essere soprattutto i maschi, i quali avrebbero dovuto sostenere lo scontro diretto con le finezze dell’ordinamento giuridico statale, diversamente dalle femmine; il tutto rientrando nell’ambito della divisione sessuale dei ruoli e del lavoro, nella società pastorale sarda.

 

Il pastore sardo ricorre, nel suo finissimo modo di ragionare, a tutta la sua perfetta conoscenza della lingua, di cui conosce tutta la diacronia, compresi i termini più desueti, rari e ormai sconosciuti perfino agli studiosi, che, non essendo al corrente di queste parole, le eliminano con una facilità estrema da qualsiasi repertorio lessicografico, lasciandole in balia della labile oralità e contribuendo a restringere ulteriormente il nostro patrimonio lessicale, anche per ragioni endogene. L’uso, inoltre, dei tempi verbali, da parte del pastore, è impeccabile e il suo modo di parlare rasenta la perfezione delle formule notarili.

 

Un esempio lampante di questo modo di utilizzare la lingua in modo eccezionale è costituito dalla ‘’alburea’’ gallurese. Questo tipo di poesia si basa su una conoscenza minuziosa del linguaggio e del lessico. Il quale viene usato, oltre che per parlare di argomenti poetici, anche per lanciare pesanti avvertimenti e minacce di morte, nonostante sembrino fuori contesto, verso il proprio nemico senza neanche nominarlo, utilizzando termini pacifici e, questi sì, appartenenti alla vita materiale e al lavoro del pastore. Però con un sapiente uso delle parole unito ad un intreccio di rime, questa poesia riesce a far arrivare il messaggio all’interessato, in modo infallibile ed esclusivo. Raggiungendo un livello di astrazione massimo.

 

Con questo tipo di poesia si dimostrano le teorie di Marshall McLuan e i suoi studi sulla comunicazione basata sul medium che può essere freddo e a bassa definizione, come la parola, oppure caldo e ad alta definizione, come, per esempio, la scrittura, la poesia, la canzone ecc. Infatti la parola, in questo caso, raggiunge un’alta definizione, con il particolare gioco di rime e con il lessico ricercato.

 

Nella poesia sarda si ricorre molto spesso all’allegoria dove si dice una cosa per indicarne un’altra ben precisa, conferendo alle parole usate, anche in questo caso, un’altissima definizione. La precisione lessicale, invece serve al pastore sardo per comunicare con i propri collaboratori indicando luoghi, fitonimi, oronimi, ecc, i cui repertori, tra sinonimi e varianti, sono veramente sterminati e, per la maggior parte, astratti e, attualmente, incomprensibili. Alcuni proverbi e modi di dire prevedono, addirittura, la negazione dell’uso della parola, proprio per evitare fraintendimenti e trappole: ‘’dae su no’, non si tinghet pabiru’’ (dal no non si tinge la carta) (riferito ai verbali), ‘’neunu s’est mai impudadu de s’esser’ bistadu mudu’’ (nessuno si è mai pentito di essere rimasto zitto), ‘’negare ferru-ferru’’ (negare anche l’evidenza).

 

Quando i proverbi assurgono, a proposito di medium ad alta definizione, quasi a norma di diritto oggettivo, con tanto di obblighi e divieti, in cui la forma è sostanza, il pastore sardo, per difendersi, li applica ricorrendo all’astuzia per opporsi ad una forza soverchiante.

 

In particolare vorrei citare i proverbi riguardanti un pilastro dell’ordinamento giuridico statale e cioè: l’istituto del giuramento. Per esempio il tassativo: ‘’sa giura coberit sa fura’’ (il giuramento copre il furto), rafforzato dall’uso della rima. Oppure, per esempio, il più poetico: ‘’a ciurare mi pones, sa craba ti perdes’’ (se mi fai giurare, ti perderai la capra).

 

A dispetto, comunque, della forma, si può dire che la definizione è bassissima, quasi che le parole travalichino il loro significato letterale a favore di un nascondimento semantico. Ma il più chiaro, riguardo a come ci si deve comportare di fronte all’apparato giudiziario, è il bittese: ‘’a su nimicu parare, a sa zustìssia fughire’’ (davanti al nemico resistere, davanti alla giustizia fuggire), soltanto che il fuggire del proverbio, è soprattutto, uno sfuggire, come si evince dal classico e molto bello: ‘’su re tenet su lèppere a carru’’ (il re acchiappa la lepre col carro). In cui ogni termine ha un suo significato particolare che può trarre in inganno, infatti non significa che il re acchiappa chiunque contravvenga alle sue leggi, come ritenuto da qualcuno. Innanzitutto il re rappresenta le forze dell’ordine, la lepre la velocità, il carro l’insieme delle leggi che il ‘’re’’ segue evitando di applicarle secondo il proprio arbitrio. Come si vede, il ‘’re’’ acchiappa sì la lepre, ma non, per esempio, la volpe, che è astuta e sfugge alle leggi.

 

Tutti debbono essere volpi a proprio modo pur di sfuggire alle leggi, visto che il pastore sardo può essere bandito dallo Stato, e questa è una condizione oggettiva innegabile, ma non può essere considerato fuorilegge, in quanto ubbidisce sempre alla legge dei Padri, in quello scontro frontale tra codici che si risolve, a seconda di chi esercita i vari poteri statali, nelle cosiddette ‘’istituzioni assolute’’. Un altro proverbio sardo dice: ‘’a giustiscia noa, ferramenta acuta’’ (alle leggi nuove, bisogna reagire con la violenza), non specificando come, ma lasciando ampia discrezionalità all’individuo. Dalla interazione tra codici nasce quello che viene chiamato ‘’Codice Barbaricino’, sulla cui esistenza non tutti sono d’accordo, data la grande soggettività, e in cui non esiste automaticità tra azione e reazione. Infatti ogni modifica delle leggi dello Stato provoca, conseguentemente, il modo di approcciarsi individuale alle nuove disposizioni da parte del Sardo.

 

Il puro e originario ‘’Codice Barbaricino’’, senza contaminazioni con altri codici, adesso, lo si può trovare, cristallizzato, soltanto, in alcune zone dell’Argentina, importatovi dagli emigrati sardi nei primi anni del 20° secolo e ancora guida i loro comportamenti. L’uomo sardo può vantare, inoltre, una spiritualità spiccata sin dalla notte dei tempi, con la molteplicità dei riti cui ha dato vita e con tutto il bagaglio lessicale più o meno astratto e simbolico ad essi collegati. Con i suoi riti è riuscito nel corso dei secoli a sviluppare stati mentali impensabili: oltre ai vari tipi di allucinazione, cui facilmente arrivava, conosceva e nominava innumerevoli stati intermedi di coscienza con relativi sostantivi che li identificavano. Per esempio il Sardo è in grado (o lo è stato) di riprodurre fenomeni tipicamente sciamanici come la trasmigrazione corporea, con cui un individuo cambia corpo, prendendo il corpo di un altro animale, con tanto di conseguenze fisiche inoppugnabili sul corpo delle persone che, loro malgrado, erano state protagoniste di tali fenomeni.

 

Ne è un esempio: ‘’sa sùrbile’’ (vampiro femminile che si trasformava in gatto e succhiava il sangue ai neonati). Se non riusciva nell’intento, ne subiva le conseguenze sul proprio fisico con menomazioni evidenti che non poteva nascondere alla vista della gente. Un altro esempio è: ‘’su boe muliake’’ (bue mugghiante), annunciatore di morte e anche lui subiva, al risveglio dalla trance, nei crocicchi delle strade, e quindi in pubblico, le conseguenze fisiche e psichiche evidenti del suo stato appena trascorso. In alcune zone viene chiamato: ‘’boe mùdulu’’ (bue senza corna). La stessa trasmigrazione corporea, pur trattandosi di fenomeno astratto, viene reso in sardo con l’espressione: ‘’andhare in galatzones’’. Per esempio: delirare, vaneggiare, si dice in sardo: ‘’essere in babilleos’’.

 

Tra i riti sardi ingiustamente poco ricordati c’è, sicuramente, l’incubazione presso le tombe degli eroi, di cui parlava, già, Aristotele. Questo rito veniva praticato dai sacerdoti e sacerdotesse nuragici per guarire le persone, tramite un sonno indotto che durava diversi giorni, dalle malattie psichiche quali, allucinazioni, incubi, deliri, epilessia, terrori di vario tipo (di cui era intessuta la vita quotidiana dell’uomo preistorico), attacchi di panico, ecc. Durante questi giorni di sonno, in cui le funzioni vitali si interrompevano, poteva sopraggiungere perfino la morte. Le sacerdotesse e i sacerdoti che conducevano il rito di guarigione, per indurre questo sonno innaturale, ricorrevano alle loro conoscenze botaniche e tossicologiche, compreso l’uso di erbe allucinogene. Secondo alcune ipotesi, sono proprio queste erbe a venir identificate, dalla cultura popolare, con linguaggio fortemente immaginifico, come ‘’sos caddhos birdes’’ (i cavalli verdi), i quali sono dei cavalli verdi, non distinguibili, però, nel buio della notte, lanciati al galoppo che, comparendo all’improvviso, attirano irresistibilmente l’uomo a salire loro in groppa, salvo poi sfracellarlo nei dirupi.

 

Niente esiste, comunque, al di fuori della lingua e qualsiasi sostantivo, pur astratto, appena nominato, inizia ad esistere e a vivere.

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