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Home Notizie Cultura A proposito di compari e padrini, chi ha manomesso le parole? (31)

A proposito di compari e padrini, chi ha manomesso le parole? (31)

Sardegna simbolica - Una rubrica dedicata alla spiritualità del popolo sardo

Macchina da scrivere compari e padrini

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Di Lorella Marietti

Ci sono parole che nascono liete e pulite, legate a festosi eventi familiari e comunitari, e poi vengono espropriate, usurpate e violate nei loro significati originali. Ne sono un esempio termini come compare e padrino, che gradatamente finiscono per indicare concetti opposti: dall’amicizia più vera e alta, ai rapporti interessati con persone abbienti o influenti, fino ai legami di mafia o le unioni dei compari di truffa.

 

In Sardegna il comparatico tradizionale, in special modo quello di san Giovanni, si è sempre distinto per la sua spontaneità, la sua gratuità e la sua autenticità, rintracciabili sia nelle testimonianze orali che in quelle letterarie.

 

Si trattava infatti di una libera scelta personale, priva di calcoli e secondi fini, mai basata su un rapporto di dominanza-subalternità, bensì su un’affinità di pensieri e sentimenti, su una lealtà radicale e anche su un rispetto profondo, come suggerisce il passaggio dal “tu” al “voi” che accompagnava il farsi compari o comari.

 

L’impegno preso sembrava superare perfino i legami nuziali e quelli di sangue, perché secondo la famosa descrizione di Grazia Deledda il compare di san Giovanni era più che la sposa, più che il fratello, più ancora del figlio. Un’unione che non poteva essere scissa. E, secondo un altro scrittore, Honorè de Balzac, l’indissolubilità di un’amicizia è resa possibile da un sentimento che manca all’amore: la sicurezza.

 

Il comparatico sardo era anche un gemellaggio di anime, come emerge dal libro “Intervista a Maria” scritto dall’antropologa Clara Gallini, che parla di una donna nata nel 1910 a Tonara e del rapporto con la sua comare, conosciuta sul luogo di lavoro e rimasta una presenza fondamentale nelle diverse vicende della vita, tra cui matrimonio e figli, fino al giorno della sua morte.

 

Alla luce di queste testimonianze forti, viene spontaneo domandarsi: cosa distingueva il comparatico sardo dall’amicizia? Certamente in entrambi i casi si tratta di un sentimento vitale e di un valore prezioso, ma nel caso dei compari e delle comari sembrava esserci qualcosa di più. Qualcosa capace di spingere due persone a impegnarsi pubblicamente, facendo un salto sul fuoco e giurandosi fedeltà eterna, per giunta durante una festa del calendario liturgico cristiano.

 

Allora, forse, il comparatico di san Giovanni rispondeva a un desiderio umano intimo e profondo di rendere sacro il legame dell’amicizia. Se infatti il matrimonio può essere suggellato con un sacramento e così pure il battesimo in cui sono coinvolti il padrino e la madrina (altra categoria di compare e comare), per l’amicizia non c’è nulla del genere sul piano rituale e comunitario. Così la liturgia laica del comparatico poteva esser nata per colmare questo vuoto.

 

Si può notare che lo stesso elemento del comparatico sardo, il fuoco, rimanda a un’idea di sacrificio simbolico, il cui significato letterale, come indica il latino sacrificium, sacerfacere, è proprio “rendere sacro”.

 

Del resto il comparatico sardo era un patto di natura spirituale, come rivelano i giuramenti pronunciati insieme mentre si saltava il falò tenendosi per mano. Le formule avevano delle varianti a seconda delle località, ma non mancavano mai i riferimenti a Dio e al santo del 24 giugno.

 

Ad esempio a Siliqua si cantava:

Gomai gomai (gopai gopai), filla (fillu) de Sant’Giuanni,

filla (fillu) de Deus, gomais (gopais) abarreus po cantu biveus.

Comare comare (compare compare), figlia (figlio) di San Giovanni,

figlia (figlio) di Dio comari (compari) rimarremo per quanto vivremo.

 

Spostare allora il significato di termini belli come “compare” in campi spregevoli come le alleanze truffaldine stile il Gatto e la Volpe, o i reati di comparatico economico, o perfino i rapporti mafiosi, diventa anche un modo per infangare i rapporti autentici, per desacralizzare l’amicizia vera, per snaturarla e corromperla.

 

Succede la stessa cosa con la parola “festa” quando viene utilizzata nell’espressione “fare la festa a qualcuno”, che ne rovescia il significato, trasferendolo da concetti positivi come gioia, riposo, convivialità, a concetti di brutalità e violenza. Chi manomette le parole per oscurare la loro bellezza?

 

Foto di Florian Klauer su Unsplash.

 

 

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