BUDDUSO’ > Per dirla con Holderlin, Barore Tucone abitava poeticamente nell’universo; ma nell’epoca in cui visse era abitudine diffusa anche se già in declino.
Tutto ciò che cadeva sotto i suoi sensi, veniva trasfigurato e reinterpretato in chiave poetica.
Quando doveva cantare lui, si respirava sempre aria di festa. Egli stesso era pervaso da una allegria sfrenata e da una euforia quasi infantile che lo rendeva felice ‘’che caddhu a sonajolos’’.
In un’ottava cantata a Cagliari nel 1944, così si rivolgeva ad Antonio Cubeddu:
‘’Osselva candho faghen una festa
chi el de poesia olganizada:
benit sa zente a manca e a dresta
tottu ascultendhe a orija parada…’’:
poesia e festa: binomio per lui inscindibile.
Si vede subito come la poesia sgorgasse spontanea dalle labbra del poeta e fosse di facile memorizzazione da parte degli ascoltatori, come che si instaurasse un rapporto invisibile, tale da rendere possibile la connessione logica.
Il suo desiderio era quello di trasportare, nel suo stesso stato di grazia, l’intero uditorio in preda ad una fascinazione collettiva, tale da astrarlo dalla vita quotidiana e fargli dimenticare, così, i relativi problemi.
Esisteva una sorta di simbiosi tra lui e il suo pubblico, che, sollecitato dal poeta stesso, non era mai dedito ad un ascolto passivo, ma era sempre mentalmente pronto e reattivo.
Non è facile per un poeta improvvisatore sviluppare una propria poetica, passando da un tema all’altro, spesso contrapposti, nel giro di qualche ora; ma Barore Tucone, gara dopo gara, è riuscito nell’impresa.
Infatti, pur se non era evidente, lui aveva sempre un obiettivo recondito da raggiungere, sconosciuto ai più.
E cioè divulgare nuova cultura nella cerchia, sempre più larga, dei suoi adepti, cercando di suscitare curiosità nelle loro menti.
Credo che sarebbe stato in grado, anche se, ovviamente, non c’è la controprova, di competere assieme ai poeti campidanesi, nella creazione degli enigmi e delle metafore improvvisate dei ‘’mutetus longus’’.
Ribelle ad ogni ortodossia e ad ogni forma di omologazione, Barore Tucone non cessava mai di richiamarsi a un’allegria trascinante, come improvvisa nel primo verso dell’ esordio del tema: Gherra e Paghe, cantato contro Raimondo Piras a Samugheo, nel 1965 e dove cantava la guerra:
Cun sa zente in s’arca ‘e s’allegria
ses Samugheo, si mai t’happo ‘idu…
La sua poesia affonda le radici nella poesia popolare, reputandola superiore alla ‘’poesia culta’’, che pur altrettanto apprezzava, ma riteneva che quest’ultima avesse perduto, ormai irrimediabilmente e totalmente, il suo significato simbolico, rituale e sacrale, che troviamo, invece, nella poesia popolare.
Potrebbe essere questa la spiegazione del fatto che il Nostro non avesse il mito dell’endecasillabo perfetto e della perfezione formale del verso.
Alla fine, nella sua visione del mondo, tutta la cultura si riduceva al numero di parole conosciute: cioè più una persona conosce parole, con le relative definizioni, più è colta.
Il poeta, per questo, era un accanito studioso del patrimonio lessicale sardo, nonostante la ricerca non possa essere pretesa da un poeta improvvisatore.
Questa sua superiorità, sia culturale sia lessicale, la ribadisce, per esempio, in un’ottava che canta, ancora a Samugheo, contro uno dei fratelli Piredda, quando dice:
‘’De vocàbbulos possedo un’imperu
e tue una giunta minoreddha…’’
Conscio di essere l’umile terminale di una tradizione poetica millenaria, improvvisa, per esempio, quest’ottava a carattere mitologico:
‘’De Castàlia s’amigu no’ so no’,
custu lu creo e rittènelu ‘ene,
amigu meu, però amante so
de sas càndidas abbas de Ippocrene;
mancari son sas abbas chi s’arrene
in sas muntagnas mias de ‘Uddhusò,
inue happo buffadu e fattu pasu
in s’umbra dulche ‘e su caddhu Pegasu!’’
Con il procedere del canto, molte volte, Barore Tucone, prende il ritmo del secondo modulo del ‘’bimboi’’ buddusoino, dopo ‘’s’arressa’, e cioè ‘’andhendhe’’, che consente una maggiore elasticità di canto e corrisponde al bittese ‘’boche ’e notte’’ e all’orunese ‘’a corfos’’.
A parte la freschezza e la bellezza delle immagini che la sua poesia riesce ad evocare, il suo modo di cantare può essere definito: antico, barbarico, pre-classico.
Dotato di una voce squillante, certi suoi attacchi sono vere e proprie grida belluine, che denotano come il poeta sia completamente in balia di ‘’sa muta’’, tanto da non riuscire a trattenere il prorompere prepotente del canto.
‘’Muta’’ viene tradotta col termine italiano: ispirazione; ma in realtà si tratta di qualcosa di spiritualmente molto più profondo, da cui il poeta improvvisatore sardo viene posseduto e completamente spersonalizzato: se di ispirazione dobbiamo parlare, si potrebbe parlare di ispirazione profetica.
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