Da diverso tempo sociologi e teologi segnalano che la società contemporanea ha preso sempre più le distanze dalla morte, fino a rimuoverla dal pensiero, dai discorsi e dal vissuto quotidiano. Perfino a novembre stanno calando le tradizionali visite in cimitero.
Il morire – e tutto ciò che può ricordarlo come la vecchiaia, la malattia, il dolore – è ormai occultato in istituti e ospedali, oppure è percepito come qualcosa di eccezionale o violento, anche a causa dei mass media che insistono su queste tipologie di decesso, incrementando l’idea che la morte sia un’anomalia e non faccia parte del ciclo della vita.
Si tratta di un problema anche culturale, che si ripercuote sul linguaggio, sugli atteggiamenti, sui legami familiari e generazionali, sulle questioni esistenziali, perché la rimozione della morte toglie le possibilità di fare i conti con sé stessi, i propri sentimenti, la propria famiglia, il proprio lavoro, in definitiva il senso della vita di ciascuno, come sottolinea il sociologo Stefano Allievi.
Far finta che la morte non esista, inoltre, si ripercuote sul modo stesso di rapportarsi con i lutti, genera l’angoscia della morte, il non sapere che fare di fronte ad un evento verso cui non sembra più esserci né conoscenza né consapevolezza. Manca insomma la “dimestichezza” con la morte, il renderla “domestica” e quindi in qualche modo gestibile.
Non così in Sardegna, dove la dimensione della morte e il rapporto con i defunti sono ancora molto sentiti, sia sul piano familiare che su quello sociale, anche attraverso le feste e il cibo che onorano la memoria di chi non c’è più (sos macarrones de sos mortos, su pane ‘e anima, ossus de mortu, i dolci per su mortu mortu come i papassinos…), senza dimenticare alcuni suggestivi rituali domestici.
Ad esempio nella notte tra il primo e il due novembre, in zone come il Nuorese e la Barbagia, sopravvive la tradizione antichissima di imbandire la tavola per i defunti, sa chena de sas ànimas, chiamata a Mamoiada “sa hena pro sos mortos”, mentre altrove si lasciano aperte le credenze di casa con i prodotti alimentari in bella vista.
La condivisione simbolica del cibo, considerato importante come le preghiere, è un modo millenario per creare un contatto psicologico, affettivo e spirituale con i propri familiari defunti, è un momento in cui i vivi possono elaborare insieme la memoria dei propri morti, coinvolgendo più generazioni e anche i bambini, in controtendenza con l’odierna censura della morte che inizia già nell’infanzia.
L’antropologo Ottavio Cavalcanti evidenzia che la tavola è il luogo dove temporaneamente si annullano siderali distanze, il colloquio si intensifica o riprende, lo scandalo della morte è riassorbito e scongiurato, i rapporti familiari e amicali si rinsaldano.
Questo istinto arcaico e universale di convivialità con i defunti, presente in tutte le culture dell’antichità, è stato interpretato dai primi cristiani alla luce dell’ultima cena di Cristo e del rito eucaristico che ne celebra la Pasqua di resurrezione, coerentemente con l’immagine del banchetto celeste presente nell’Antico e nel Nuovo Testamento.
Questa rilettura ha ispirato i primi cristiani, anche in Sardegna, a celebrare l’Eucaristia sui sepolcri dei martiri e a ricordare i loro defunti con banchetti rituali che si svolgevano in catacombe e aree cimiteriali all’aperto “attrezzate” con mense in muratura o ricavate dalla roccia, seggi (o cattedre) che simboleggiavano la presenza del defunto al banchetto in suo onore, sedili o letti utilizzati dai convitati e ricavati dalle lastre di copertura di alcune tombe a sarcofago, così come sepolture con fori e tubi per il passaggio del cibo.
In tutta la Sardegna sono state trovate tracce archeologiche di questa antichissima tradizione cristiana del banchetto funebre, ad esempio nell’area cimiteriale delle Basiliche di Cornus nella provincia di Oristano (IV-V sec) e in diversi altri punti dell’isola come Sant’Imbenia (Alghero), Santa Filitica (Sorso), la necropoli “Su Gutturu” (Olbia), Porto Torres, S. Saturnino (Cagliari), San Cromazio (Villa Speciosa) e Columbaris (Cuglieri).
Lo stesso altare delle chiese cristiane, del resto, è una mensa ricoperta da una tovaglia e nel Medioevo gli oggetti utilizzati durante la celebrazione eucaristica (come calici, piattini, cucchiai di varie fogge e dimensioni, vasi di vetro…) non si differenziavano molto, come forma, dai recipienti di uso quotidiano domestico.
Interessante notare che nelle case di Siliqua, in onore di un familiare defunto, si usava un tempo apparecchiare il tavolo con la tovaglia, un bicchiere, un pane civràxiu e su binu, quasi a ricreare una liturgia domestica: una tradizione che si dice affondasse le radici nell’usanza di stendere sulle tombe una tovaglia su cui venivano posti pane, vino e due candele di cera accese.
Un’ulteriore traccia di questa associazione concettuale mensa-defunto sembra trasparire dall’antica tradizione sarda di distendere il defunto, nelle primissime ore del suo decesso, sul tavolo di casa per lavarlo, vestirlo e comporlo accanto al focolare domestico, sopra un tappeto chiamato Tapinu ‘e mortu di cui restano pochi esemplari, alcuni esposti al Museo Regionale dell’Arte Tessile di Samugheo.
Un’altra usanza plurisecolare è rintracciabile nelle tradizioni sarde più antiche che prevedono, oltre al pasto funebre dopo il funerale, la distribuzione di carne, pane, maccheroni ai vicini, agli amici e ai poveri al settimo e nono giorno dalla morte del familiare, come anche il costume di donare il pane a tutte le famiglie del paese per onorare la messa del trigesimo, trenta giorni dopo.
Allo stesso modo un documento cristiano del IV secolo, le Costituzioni Apostoliche, riporta che il primo banchetto in onore del defunto veniva celebrato subito dopo il suo seppellimento e poi con cadenza prestabilita al terzo, settimo, nono giorno e ancora al trentesimo o quarantesimo giorno.
Infine non si può non ricordare la tradizione sarda del 31 ottobre, ottima per evitare il tabù della morte fin da piccoli, che vede protagonisti i bambini già molto prima che prendesse piede la festa di Halloween. In Sardegna è chiamata Is Animas e i bambini vanno a bussare a tutte le porte del paese, chiedendo a gran voce del cibo per le anime del purgatorio (un tempo arance, melagrane, mandorle, pane ‘e sapa e altri dolci tipici).
Le formule utilizzate dai bambini sono diverse a seconda delle zone, ad esempio “Seus benìus po is animeddas” (sono venuto per le anime), “seu mortu mortu” (sono morto morto, come a impersonare il defunto), “carchi cosa a sas ànimas” (qualcosa per le anime), “a fagher bene a sos mortos!” (a far del bene ai morti!). Un tempo le famiglie chiedevano espressamente ai bambini una preghiera per i loro morti in cambio dell’offerta, come accade ancora a Sinnai dove la litania adoperata è Is Panixeddasa.
Oltre alla dimensione giocosa, emerge un aspetto rituale che collega ancora una volta, positivamente, defunti e cibo. Un legame indagato dagli antropologi e non del tutto chiarito, di cui la Sardegna possiede forse una chiave.
Immagine: Banchetto funebre cristiano, affresco nelle Catacombe dei Santi Pietro e Marcellino, Roma.