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SARDEGNA SIMBOLICA – Per Sant’Efisio (e non solo), i buoi sardi mandano dei messaggi: perché? (12)

Una rubrica dedicata alla spiritualità del popolo sardo

Buoi Sant'Efisio

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Di Lorella Marietti

Si è da poco conclusa la 367ª processione di sant’Efisio, una delle più lunghe d’Europa: da Cagliari a Nora e ritorno, circa 60 km in 4 giorni, percorsi a piedi, a cavallo e sulle traccas, i carri addobbati che vengono tirati da possenti buoi ornati di fiori, nastri e arazzi colorati.

 

Quest’anno i due buoi che hanno avuto l’onore di trainare il cocchio di sant’Efisio si chiamano “No d’acquistas” e “Chi sighis aici” (“Non lo ricevi” – “Se continui così”): due nomi che, pronunciati insieme, formano una frase di senso compiuto in lingua sarda. Così pure, nel 2022, i nomi dei due buoi di turno erano “Mancai n’di neranta” e “Non di fatzu contu” (Nonostante se ne dicano – Non ne tengo conto). Un monito nel primo caso, un saggio proposito nel secondo.

 

Questa singolare maniera di chiamare uno dei due buoi con la prima parte di una frase, e l’altro con la seconda parte, non riguarda solo l’evento di sant’Efisio, ma si tratta di un’antica tradizione agropastorale isolana legata all’addestramento di questi animali, che prima di essere aggiogati ricevevano i loro originali “nomi-frase”.

 

I buoi sardi venivano utilizzati non solo per il lavoro nei campi e per le trasferte familiari a bordo delle traccas, ma anche per scortare le statue dei santi nelle processioni religiose: ad esempio agli inizi del 1900 a Villacidro (Cagliari), durante la festa di sant’Isidoro, sfilavano non meno di 200 gioghi di buoi. Questo duplice impiego feriale e liturgico, e in particolare la consuetudine di usarli per il trasporto delle statue dei santi, sembra trarre origine dall’Antico Testamento: qui si legge che i buoi, oltre ad essere impiegati nei lavori agricoli, trainavano il carro che trasportava l’arca dell’alleanza (1Sam 6,7 ss; 2Sam 6), l’oggetto più sacro della religione ebraica, pegno della protezione divina.

 

Anche il dare un nome agli animali si ritrova ugualmente nella Bibbia, dove è l’uomo, non Dio, ad avere questo compito, assegnatogli dal Signore stesso “per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome” (Gen 2,19). Tuttavia, l’antico modo sardo di nominare i buoi sembra unico nel suo genere.

 

Infatti, l’espediente linguistico era anche un sistema di comunicazione sociale: incitare i due buoi, chiamandoli per nome, consentiva di dire a voce alta l’intera frase e mandare così un messaggio a chi stava attorno. Perchè, come sottolinea l’Arciconfraternita di sant’Efisio, la frase formata dai due nomi veniva sempre creata con delle finalità precise.

 

Ad esempio, poteva trattarsi di una promessa al santo, o di un ringraziamento speciale, come nel caso dei due buoi chiamati “Po’ cantu bivu – Ti rendu onori” (Fino a quando vivrò – Ti renderò onore). Altre coppie di nomi sembravano dispensare buoni consigli: “Chi no ti cìrcatNo t’inci pòngas” (Se non vieni coinvoltoNon intrometterti); “No t’agualìs” – “A su frori” (Non farti uguale – Al fiore) per ironizzare sulla vanità; “No burlaiCun piticu” (Non scherzare – Col piccolo), come del resto insegnano Davide e Golia.

 

I più anziani raccontano che, a Domusnovas, ziu Antoni allevava una doppia coppia di buoi (una ufficiale e una di riserva) adibiti al trasporto di sant’Efisio: la coppia più adulta si chiamava “Bollemu bivi” -“Po biri a tui” (Vorrei vivere – Per vederti), nomi che esprimevano l’affetto che legava i due animali e la reciproca indispensabilità nello svolgere il loro compito, mentre i due buoi più giovani si chiamavano “Mancai Provisi” – “Non Ci’Arrenescisi” (Non riesci – Nonostante i ripetuti tentativi) per dire che difficilmente sarebbero stati all’altezza della coppia più esperta, ma forse c’era anche la rappresentazione mentale di una sfida come sprone a migliorarsi.

 

Vi erano poi dei messaggi diretti a determinate persone, per esempio qualcuno che si era comportato male e perciò, ogni volta che transitava nei pressi dei buoi, sentiva pronunciare a voce alta i nomi: “S’amigu” – “Pagu fidau” (L’amico – Poco affidabile). Oppure, come raccontano ad Asuni, poteva trattarsi di un messaggio lanciato a un vicino impiccione (“Curiosu” – “Penza po tui” ossia “Curioso – Pensa per te”) o anche una frase scherzosa rivolta alla moglie: “Sezzi in domu” – “Arreulada” (Stai in Casa – Girellona) che celava magari un po’ di gelosia.

 

Non mancavano nomi di buoi che componevano frasi di corteggiamento come Affacciadì – Ogus bellus (Affacciati – Occhi belli), da gridare mentre si passava sotto la finestra della ragazza, o anche nomi che sembravano esprimere il disappunto per un rifiuto amoroso: “Sola sola” – T’imbèccias” (Sola sola – T’invecchi).

 

La ricca varietà delle espressioni adoperate sembra riflettere il doppio ruolo nel sacro e nel profano dei buoi sardi, ma tutte si distinguono per la loro incisività. Invece, in altre parti d’Italia, venivano dati ai bovini dei semplici nomi propri: ad esempio, in Emilia Romagna, gli antichi e Bunì, che sono anche i comandi impartiti ai buoi per andare a sinistra e a destra; oppure nomi riguardanti i colori del mantello (come Roxo se rossiccio e Bonello se bianco nella provincia di Rimini); o anche nomi legati al comando come Capitano e Bersagliere a Vallo di Nera in provincia di Perugia e, allo stesso modo, in Sicilia, i nomi Capitanu, Marasciallu, Imperaturi, Napuliuni (Napoleone), Presidenti, Regnanti, Salamuni (Salomone).

 

Bisogna dire che i boonimi, ossia i nomi propri dei bovini, costituiscono un campo poco esplorato sebbene siano uno strumento d’indagine dell’immaginario di un popolo, basta pensare che i Dinka, nel Sudan del sud, quando diventano adulti assumono i nomi dei loro buoi in aggiunta ai nomi personali. Del resto, il nome non è mai una vuota etichetta, ma rappresenta un potente indicatore culturale, come conferma lo studio di Mauro D’Aveni che ha raccolto nel territorio piemontese 1716 nomi diversi assegnati a 5646 bovini, classificandoli per categorie strutturali e grammaticali e per aree semantiche.

 

In tale ottica viene spontaneo chiedersi quale potesse essere l’origine della fantasiosa e articolata boonimia creata dai Sardi. Viene in mente, per associazione di idee, il noto proverbio sardo “Un bue solo non tira il carro” (Bòi solu no tìrat carru) usato per indicare qualcosa che non si può fare da soli. Infatti, come dimostra l’esperienza pratica, dove per tirare il carro si aggiogano due buoi, allo stesso modo per compiere certi lavori e per farli a regola d’arte, bisogna essere in due.

 

Questo detto popolare poteva aver ispirato un’applicazione per così dire concreta della verità che conteneva? Così da diventare un criterio fisso nella denominazione dei buoi, al punto che i due nomi erano pensati per funzionare non da soli ma unicamente in due, quasi a incarnare il proverbio.

 

Si può pure ricordare che “Bòi solu no tìrat carru” si usa anche per dire che si vive meglio in due, o per esprimere il valore di un sostegno morale: un’estensione di significato che arriva a toccare il concetto di famiglia, dove l’accordo e l’armonia tra i coniugi è indispensabile per la crescita della stessa, come evidenzia il raccoglitore di proverbi sardi Antonino Meloni.

 

Questo significato appare ancora più interessante se si considera che il termine “coniugato” deriva da cum “insieme” e iugum “giogo”, perciò, i coniugi sono quelli “attaccati allo stesso giogo”, cosa che fa pensare a un altro versetto biblico: «l’uomo si unirà (in ebraico: si attaccherà, radice dabaq) e i due saranno una sola carne» (Gen 2,24). Dabaq è un vocabolo adoperato nella Bibbia anche per dire che Dio attacca a sé Israele e Israele si attacca a Dio. Tertulliano, commentando il versetto sull’uomo e la donna, dice che essi «sono veramente due in una sola carne e dove la carne è unica, unico è lo spirito».

 

Nel biblico Siracide si legge che una moglie malvagia è come un “giogo di buoi sconnesso” (26,7), come a significare che la donna ha un ruolo guida nella coppia, nel male e nel bene. Il parallelismo sembra continuare nel proverbio “Pobidda e giùs, in logus tùus” (mogli e buoi dei paesi tuoi), che pare sottolineare la necessità per ogni coppia, legata da amore o lavoro, di intendersi bene e di avere un orizzonte comune (come chi parla la stessa lingua e vive nello stesso luogo).

 

Da notare che in Sardegna il termine “giogo” – “Su Giù”, “Su Ju”, “Su Juale”, “Su Juvale” – indica non solo l’antico dispositivo utilizzato per la trazione, ma anche gli stessi animali su cui viene applicato, come a riprendere l’idea dei “due” che sono una cosa sola.

 

Anche il proverbio “Bòi solu no tìrat carru”, inteso nel suo significato più astratto sul vivere meglio in due che da soli, evoca un altro passo biblico: quello in cui Dio dice «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18). Parole che in questo testo riguardano, in un crescendo di bene, prima gli animali presentati come aiuto e poi la donna pensata come alleata, figura non solo del genere femminile ma del prossimo in generale, dell’altro da sé. Infatti, il verbo ebraico dabaq viene usato nella Bibbia per indicare anche l’attaccamento a un amico (Prv 18,24) o al proprio re (2Sam 20,2), o l’affetto che lega Rut alla suocera (Rt 1,14), oltre che il sentimento d’amore tra uomo e donna (Gen 34,3).

 

Ma le meraviglie linguistiche non finiscono qui: come si chiama, infatti, l’abbigliaggio in broccato e passamanerie oro che viene preparato per il giogo di sant’Efisio? È detto “Sa cuncordia”: un termine che riflette l’idea di sintonia sottesa nel giogo (e nei coniugi, e nei vari tipi di attaccamento umano), ed evoca anche lo spirito della boonimia sarda, quei nomi-frase che suonano bene (e hanno un senso compiuto) solo in coppia. Alcuni di questi nomi sembrano esprimere proprio questo vivere insieme, l’essere compagni di vita, il camminare insieme: Abettamì” – “No tèngas pressi” (Aspettami – Non avere fretta) e “Portadì bèni” – “In s’amori” (Sii leale – In amore).

 

Tuttavia, se lo spirito della boonimia sarda sembra avere un carattere biblico – del resto sono numerosi i legami tra la Bibbia e le tradizioni sarde già riscontrati e riportati in questa rubrica – non sembra però esserci in questo Libro nulla che spieghi il sistema isolano dei nomi-frase.

L’origine, allora, potrebbe essere cercata in un’altra parte del DNA culturale della Sardegna.

 

Forse la spiegazione potrebbe trovarsi nel peculiare ruolo svolto dalla comunicazione bocca-orecchio nei luoghi dell’oralità sarda: case, strade, piazze, chiese, riti campestri, feste religiose. Basta pensare alla poesia estemporanea sarda basata sulla improvvisazione lirica orale in lingua sarda: la boonimia poteva essere quasi un ramo minore germinato nelle realtà agricole?

 

Al posto di semplici nomi, brevissime composizioni argute come battute e a volte poetiche come versi, create nel solco (è il caso di dirlo) di altre espressioni estemporanee che accompagnavano la quotidianità sarda: ninne-nanne, componimenti funebri, canti della trebbia e canti dei lavori femminili, filastrocche. Un tema che sarebbe molto interessante approfondire.

 

Immagine: Coppia di buoi che traina il cocchio di sant’Efisio, ph. Pasqualina Dongu, fonte Sardegna Digital Library.

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