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SARDEGNA SIMBOLICA – Con la Domenica in Albis si chiudono i riti pasquali, si tolgono i nenneres e si viaggia nei simboli (10)

Una rubrica dedicata alla spiritualità del popolo sardo

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Di Lorella Marietti

Nella tradizione isolana più antica i riti della Settimana Santa continuano anche dopo Pasqua, fino alla domenica successiva, detta anche “in albis”, che a Cagliari è dedicata a “S’inserru”, la chiusura. È l’evento con cui si sancisce la fine degli impegni quaresimali delle confraternite, che ripongono nelle nicchie le statue utilizzate durante le processioni pubbliche.

 

Da oggi non ci sono più pure i tradizionali nenneres che sono stati deposti sugli altari il Giovedì Santo, pallidi germogli di grano e altri cereali fatti crescere al buio in modo che le piantine assumano il tipico colore bianco causato dalla mancanza di clorofilla.

 

La tradizione sarda del nennere (o nenneri) rappresenta una sorta di liturgia domestica officiata dalle donne nelle loro case. All’inizio della Quaresima i chicchi vengono posti in un piatto o in un vaso, su una base di cotone imbevuto d’acqua con un po’ di terriccio, e poi innaffiati regolarmente in un angolo privo di luce, tradizionalmente sotto il letto o nell’armadio. Nel corso di alcune settimane i germogli diventano dei candidi steli fittamente allineati, alti circa venti centimetri, pronti per addobbare il sepolcro di Cristo in attesa della Pasqua di resurrezione.

 

Le piantine vengono fasciate con un nastro scarlatto, segno del sangue versato sulla Croce, e tra di esse è collocato un lume, segno di fede e di risurrezione; inoltre, vi si aggiungono dei fiori come le violette, le bocche di leone, le fresie, segno di gioia e festa. Il nennere così composto è simbolo della passione, morte, sepoltura e risurrezione di Cristo.

 

Il grano stesso ricorda la vita che, per risorgere, deve essere sepolta nella terra. Infatti, il chicco sotterrato sacrifica il suo guscio per far emergere alla luce il germoglio di una nuova vita, come sottolinea Gesù nel vangelo di Giovanni: “se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (12,24). Questa fecondità del chicco è richiamata anche nel fatto che i nenneres, una volta assolto il loro compito nelle chiese, finiscono nei campi coltivati come segno di benedizione per un buon raccolto.

 

Anche la tradizione pasquale della Sicilia e della Calabria prevede la coltivazione dei germogli rituali in vista del Giovedì Santo, chiamati nel primo caso Sepulcru o Lavureddu, e nel secondo u Suburcu o Graniciaddu. Questa consuetudine nasce presumibilmente nella Chiesa bizantina, che ha avuto un grande influsso in Sardegna e nel sud Italia, e si diffonde in particolare presso le comunità cristiane greche – a Serres con i germogli pasquali di lenticchie e d’orzo chiamati hassili – e nelle chiese ortodosse dove si usa offrire, insieme alle candele, dei germogli di grano, però non a Pasqua ma a Natale, secondo la teologia bizantina che collega simbolicamente le due feste, contemplando nella nascita di Gesù la profezia della sua morte.

 

Secondo l’antropologo J. G. Frazer questa ritualità cristiana dei germogli collegati al sepolcro sarebbe la continuazione sotto diverso nome del rito pagano dei Giardini di Adone, il dio greco che muore in estate e rinasce in primavera, celebrato nell’antica Grecia e in Asia minore, dove si preparavano dei vasi pieni di germogli di cereali e ortaggi. Ma questa interpretazione non trova tutti d’accordo.

 

Intanto, dal punto di vista simbolico, si può considerare che si tratta di un concetto opposto a quello cristiano, perché nel mito greco il focus è sulla morte e non sulla vita nuova: nei giardini di Adone i germogli venivano fatti essiccare al sole, tanto che le donne piangevano tenendo in mano i vasi di piantine appassite, che poi venivano gettate in mare. Infatti, il poeta Ovidio (nato nel 43 a.C.) racconta che il sangue di Adone, ucciso da un cinghiale, si trasforma in un fiore che nasce dalle lacrime di Venere e che vive pochissimo.

 

Lo storico e antropologo Marcel Detienne osserva come Adone fosse una divinità seducente ma infeconda ed effimera; dunque, agli antipodi del chicco di grano che morendo produce molto frutto (immagine del martirio fecondo di Cristo). Anche secondo Claude Levi-Strauss gli antichi Greci, da Platone a Simplicio, vedevano nei giardini di Adone una metafora dei raccolti infruttuosi e sterili, confermata da un detto dell’epoca secondo cui “seminare i giardini di Adone” significava produrre cose caduche, senza radici profonde e senza durata.

 

In tale ottica la tradizione dei nenneres, novelli “giardini di Cristo”, sembra proprio ribaltare e completare la concezione del mondo greco antico, aprendola a più ampi orizzonti, nuovi e definitivi. L’analisi dei simboli si rivela quindi determinante per andare oltre le apparenti somiglianze e per allenare il pensiero a non fermarsi alla superficie formale delle cose.

 

Inoltre, come evidenzia l’Enciclopedia Treccani, il nome del dio Adone rimanda al mondo cultuale semitico, ricollegandosi sia all’antico dio Adonis venerato dai Fenici, sia al babilonese Tamuz che era a sua volta chiamato Adon, “Signore”, e così si giunge al termine ebraico Adonai, “Signore mio”. Chi aveva influenzato chi?

 

Sicuramente il termine Adonai è molto più antico del nome Adone. Inoltre, il popolo ebreo ha sempre lottato per mantenere la propria identità religiosa e culturale, dal momento che nella sua lunga storia è venuto in contatto con molte altre civiltà, tra cui proprio i Fenici, i Babilonesi e l’impero ellenico di Alessandro Magno, anche convivendoci per una o più generazioni.

 

Lo dimostrano le accademie rabbiniche di Babilonia o anche gli ebrei di madrelingua greca presenti nella prima comunità cristiana di Gerusalemme.

 

D’altro canto anche nei primi secoli del cristianesimo si verificò una convivenza tra Ebrei, Greci, Mediorientali e le nuove comunità cristiane, per esempio in Siria e ad Alessandria d’Egitto, basta pensare all’influsso esegetico di Filone l’ebreo, alla scuola multiculturale cristiana di Origène, alle scuole siriane cristiane nate sul modello di quelle rabbiniche, alle opere dello Pseudo Dionigi l’Areopagita o alla figura di Aafrate il saggio persiano.

 

La stessa liturgia ebraica è stata fonte di ispirazione per quella cristiana, tenuto conto che gli apostoli e i primi discepoli di Cristo erano di origine o di cultura ebraica, e non fecero un vuoto dietro di sé, come se si fossero distaccati dalle loro radici, ma anzi le guardarono alla luce della rivelazione cristiana come un cammino graduale e propedeutico, continuando ad esempio a celebrare la Pasqua ebraica ma con un significato nuovo.

 

Interessante notare che vi è pure una fonte ebraica che parla di germogli seminati: si tratta di Ra.SH.I., nel commento al Talmùd, Shabbat 81b, che spiega il significato della parola prpys’ ricavato dai Gheonim (Babilonia, VII-X sec.), dicendo che indica dei canestri di palme, riempiti di terra e concime, nei quali si seminano colocasia e legumi due o tre settimane prima di Rosh hashanà (il Capodanno ebraico civile). Questa fonte potrebbe spiegare la consuetudine degli Ebrei di Roma che preparano germogli per le tavole imbandite di Rosh hashanà, usando due o tre specie di sementi (grano, granturco, lenticchie) poste su dei piatti o delle terrine di coccio, sopra uno strato di cotone e un po’ di terriccio, come si fa in Sardegna, però tenendoli alla luce.

 

Ma non è tutto, perché la medesima tradizione è presente nel Capodanno di origine persiana, il Norouz, che è celebrato ancora oggi nei territori in cui arrivò l’impero persiano e presso le comunità iraniche, curde e turche di tutto il mondo: anche in questo caso si tratta di germogli di grano (sabzeh), seminati nello stesso modo, lasciati crescere alla luce e utilizzati per la tavola del nuovo anno.

 

Il dato riportato nel commento rabbinico al Talmùd ebraico – che all’inizio era affidato alla tradizione orale e cominciò a essere redatto solo nel post esilio babilonese – potrebbe aver esercitato un influsso cultuale sui popoli venuti a contatto con gli Ebrei?

 

Sembrerebbe plausibile questa ipotesi, più che il contrario, se si ricollegano i germogli alle parole del profeta Isaia e allo spirito del Rosh hashanà.

 

Isaia dice infatti: “Ogni carne é erba… il popolo é erba; l’erba si secca, il germoglio appassisce, ma la parola del nostro Dio durerà in eterno” ((40:6-8) e questo è uno dei temi fondamentali del Capodanno ebraico civile, che cade in autunno e invita alla riflessione esistenziale e all’introspezione personale prima di passare alla gioia di Sukkòt, richiamando così il senso di caducità che potrebbe aver ispirato i giardini di Adone.

 

Per quanto riguarda il Capodanno di origine persiana, che invece coincide con l’equinozio di primavera, bisogna dire che qui i germogli di grano simboleggiano la rinascita: un significato che si avvicina all’altro Capodanno ebraico, quello religioso descritto nel Pentateuco, che ricorre proprio in primavera, nel mese in cui venne istituita la Pasqua ebraica.

 

Facendo, poi, un confronto tra i nenneri della tradizione sarda e i germogli rituali del mondo semitico, salta all’occhio la differenza di colore: i primi messi al buio per ottenere un bianco candido, i secondi esposti alla luce per ottenere un piccolo giardino verdeggiante la cui crescita rapida va di pari passo con il suo appassire.

 

Il fatto, poi, che i candidi nenneres vengano tolti subito dopo la Domenica in albis – cioè la domenica in cui anticamente si deponevano le vesti bianche del battesimo– fa pensare che il colore rimandi a un significato comune. Infatti, nella Chiesa dei primi tempi, il battesimo era amministrato durante la notte di Pasqua e i battezzati indossavano una tunica bianca che portavano poi per tutta la settimana successiva (detta anch’essa “in albis”), fino alla prima domenica dopo Pasqua.

 

I neobattezzati vestiti di bianco erano chiamati anche “neofiti”, cioè “nuove piante” in greco, così come Cristo è identificato con il germoglio annunciato da Dio: “… farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra” (Geremia 33,15). O come dice Isaia 11,1: “Un germoglio spunterà”. E ancora: “Ecco, io manderò il mio servo Germoglio” (Zaccaria 3,8) e anche “…  si chiama Germoglio: spunterà da sé e ricostruirà il tempio del Signore”.

 

Inoltre, come scrive san Paolo, i battezzati hanno la stessa sorte del seme che germoglia a nuova vita, perché muoiono e risorgono misticamente con Cristo: “Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Romani 6,4).

 

Infine, Gesù è chiamato anche il Nazareno e il nome Nazaret deriva dal verbo ebraico nāṣar, da cui si origina il sostantivo nēṣer che fa emergere il campo semantico del fiorire: germoglio, ramoscello nuovo, virgulto. Un’assonanza con nennere?

 

 

Immagine: “Nenneres” all’altare del Santissimo Sacramento, Santuario di Oropa, Biella (archivio).

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