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SARDEGNA SIMBOLICA – Buon Natale, anzi Bona Paschixedda (terza parte)

Una rubrica dedicata alla spiritualità del popolo sardo

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Di Lorella Marietti

In Sardegna il Natale-Pasca e l’antica “Messa del Canto del Gallo” di mezzanotte non sono le uniche terminologie natalizie che sembrano riferirsi a scene pasquali.

Nella tradizione sarda vi è infatti “la Notte della Cena”, chiamata “Sa nott’è e xena” o anche “Note de Chena” (nel centro-nord) e “Noti de cena” (notexèna) a Cagliari: l’appuntamento più atteso che alla Vigilia riuniva improrogabilmente le famiglie a tavola.

 

Il nome di questo pasto ha un suono pasquale poichè nei Vangeli la cena per eccellenza è quella di Gesù, che tra l’altro si svolge proprio nel periodo della Pasqua ebraica (chiamata “Pesach”), difatti egli è “l’agnello di Dio”. Inoltre, è durante questa cena che Gesù istituisce l’Eucarestia e dunque sembra ritornare il concetto della mangiatoia-altare-mensa eucaristica evidenziato dai primi cristiani per la nascita del Bambino. Questi collegamenti portano a chiedersi se in Sardegna anche la cena della Vigilia poteva collocarsi nel discorso del Natale visto alla luce della Pasqua.

 

A questa domanda se ne aggiunge un’altra: è possibile che questa antica tradizione sarda avesse un legame pure con la cena pasquale delle comunità ebraiche presenti nell’isola fino alla fine del XV secolo? Vi sono infatti alcune interessanti analogie tra le due culture e il loro modo di vivere a tavola i due eventi centrali delle rispettive religioni, dal momento che la Pasqua è in un certo senso il natale del popolo ebraico, perché è durante Pesach che nasce Israele, il primogenito di Dio (Esodo 4,22), e la cena pasquale ebraica fa memoria di questo evento fondamentale con grande partecipazione, così come per il popolo sardo la cena della Vigilia era talmente sentita da superare per importanza il pranzo del 25 dicembre.

 

In entrambi i casi la notte della cena rappresenta il fulcro della festività e mette al centro la famiglia riunita a tavola per condividere piatti e legami.

Nella Sardegna del passato era il momento dell’incontro per eccellenza, in cui non mancava nessuno e anche gli emigranti tornavano a casa in tempo per la Vigilia. Il ritrovarsi per la cena del 24 era irrinunciabile pure per i pastori, il cui lavoro imponeva lunghi periodi di solitudine, e così scendevano dai rifugi di montagna o rientravano dalla transumanza per ricongiungersi con le loro famiglie proprio in questa occasione.

 

Con lo stesso trasporto i gruppi familiari ebraici si radunavano attorno a grandi tavole per il loro Seder pasquale, la cena rituale in cui ancora oggi ricordano insieme l’uscita dall’Egitto che ha reso possibile la nascita del loro popolo. Questa notte della cena è celebrata in ogni famiglia da migliaia di anni, secondo il comando di Dio: «Questa è una notte da celebrarsi in onore del Signore, perché egli li fece uscire dal paese d’Egitto; questa è la notte di veglia in onore del Signore per tutti i figli d’Israele, di generazione in generazione» (Esodo 12, 42).

 

I preparativi iniziavano diversi giorni prima e vi partecipavano tutti i membri del nucleo familiare. Tra queste attività ha sempre avuto un ruolo emblematico la pulizia a fondo della casa: nella tradizione ebraica, tuttora mantenuta, la famiglia ripulisce ogni angolo e fessura da qualsiasi traccia di lievito (presente, oltre che nei pani, in altri prodotti soggetti a fermentazione) con un intento anche purificatorio; nella tradizione sarda si facevano le cosiddette “pulizie di Natale” e si imbiancava la parete intorno al camino della cucina, annerita durante l’anno dal fumo, per riportarla al candore iniziale.

 

Al centro della cena ebraica pasquale vi è da sempre la Haggadah (“narrazione”), vale a dire il racconto dell’uscita dall’Egitto, arricchito da midrashim (parabole), commenti dei Maestri, riflessioni e domande dei bambini. Anche la Vigilia natalizia sarda dava grande spazio alla narrazione e si ascoltavano le storie e gli aneddoti di vita raccontati dagli anziani, che catturavano pure l’attenzione dei più piccoli.

 

Durante la cena sarda del 24 dicembre bisognava mangiare tutto quello che era stato preparato in abbondanza e non si poteva avanzare nulla. La regola valeva anche per i bambini che, in caso contrario, sarebbero stati puniti dalla leggendaria Maria Punta ‘e Orru (conosciuta anche come Palpaeccia): questa li avrebbe visitati mentre dormivano e, se il loro stomaco non fosse stato pieno, sarebbero stati trafitti con uno spiedo oppure schiacciati con un masso. Questo obbligo di consumare tutto il cibo, accompagnato da una punizione per i disobbedienti, sembra reinterpretare la descrizione biblica di quanto accade agli Ebrei dopo la fuga dall’Egitto, quando nel deserto ricevono da Dio manna e carne per nutrirsi e il comando di non avanzarne mai: «Mosè disse loro: ‘Nessuno ne faccia avanzare fino al mattino’. Essi non obbedirono a Mosè e alcuni ne conservarono fino al mattino; ma vi si generarono vermi e imputridì» (Esodo 16, 19).

 

Il legame più evidente tra il popolo sardo e quello ebraico sembra poi rivelarsi attraverso il comune gioco tradizionale delle festività: una sorta di trottola chiamata “su barralliccu” in Sardegna e “dreidel” o “sevivon” nella lingua ebraica.

Su barralliccu è formato da un piccolo cubo di legno e da un perno centrale; sulle quattro facce del cubo vi sono quattro lettere, la T di tutto (“tottu”), la M di metà (“mitadi”), la N di nulla (“nudda”), la P di posare o porre (“poni”), che corrispondono ad altrettante azioni di gioco, poiché dopo cena la trottola veniva fatta girare a turno dai bambini per contendersi un piccolo bottino (frutta secca, mandarini, qualche spicciolo).

 

Allo stesso modo il dreidel ha una lettera ebraica su ciascun lato del cubo: la lettera “Gimel” che è l’iniziale di “tutto”, “Hei” o “Halb” che è la prima lettera della parola “metà”, “Nun” che rimanda a “niente” e “Shin” che sta per “metti”. Le origini di questo antichissimo gioco giudaico, tuttora praticato, risalgono all’occupazione ellenica di Gerusalemme intorno al 175 a.C., quando i bambini studiavano di nascosto la Bibbia ebraica e fingevano di giocare con il dreidel non appena passavano i soldati.

 

Tutti questi paralleli sembrano avvicinare “Sa nott’è e xena” e il Seder di Pesach: due grandi feste domestiche con al centro una cena, una natalizia e una pasquale.

È interessante notare che pure nella tradizione spagnola, dove è presente il legame concettuale Natale-Pasqua, la cena della Vigilia è la festa più grande della stagione natalizia e precede la Messa del Gallo come in Sardegna, ed è chiamata “Noche buena” (la notte buona).

 

In Paesi come la Russia, la Lituania e la Polonia, dove è diffuso il rito bizantino che in modo analogo congiunge simbolicamente il Natale alla Pasqua, la cena del 24 dicembre si articola in dodici piatti riferiti al numero degli apostoli, quasi a evocare l’ultima cena di Gesù, ma richiama anche la cena ebraica pasquale che è ugualmente codificata e si basa sul numero quattordici per ripercorrere in diverse fasi tutti i fatti avvenuti prima e dopo la liberazione.

 

Se il legame con i “fratelli maggiori” ebrei è presente in molti aspetti del cristianesimo, dalla liturgia ai simbolismi della Sacra Scrittura – la stessa Ottava di Pasqua che prolunga la festa cristiana, così come l’Ottava di Natale, sembra rifarsi alla durata di 8 giorni delle due maggiori feste ebraiche Pesach e Chanukkà – ecco che nella lingua sarda questo legame pare essersi espresso in modo peculiare attraverso le tradizioni e le usanze popolari. Del resto, le comunità giudaiche in Sardegna erano diffuse nei più importanti centri costieri (a Cagliari vi era il quartiere ebreo), sia nell’area del Campidano che nel Giudicato d’Arborea e nei domini Pisani e Genovesi, e il loro numero crescerà con l’immigrazione ebraica a seguito dell’invasione catalana e aragonese.

 

Immagine: “L’ultima cena” Di Leonardo da Vinci – refettorio del Convento di Santa Maria delle Grazie – Milano.

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