Nella tradizione antica della Sardegna le donne che avevano partorito seguivano un rituale preciso: dopo 40 giorni di ritiro in casa, la loro prima uscita consisteva nell’andare in chiesa con il neonato per ricevere dal sacerdote s’incresiamentu, o s’incresiadura, ossia la purificazione-benedizione-santificazione-entrata in santo (la traduzione cambia a seconda dei diversi vocabolari di sardo-italiano, mentre nel linguaggio popolare dei contuso o contus de memoria si parla sempre e solo di “purificazione”).
Detto in altre parole, le neomamme sarde imitavano la madre di Gesù, che si era recata al tempio con il Bambino dopo quaranta giorni dal parto, così da essere dichiarata pura in ottemperanza alla legge ebraica (Luca 2,22-24).
La tradizione isolana traeva origine da questo evento descritto nel Vangelo e celebrato nella liturgia del 2 febbraio proprio come “Festa della Purificazione della SS. Vergine” (denominazione rimasta fino alla riforma liturgica degli anni ‘60 e poi divenuta “Festa della Presentazione di Gesù al tempio”), popolarmente conosciuta come “Candelora” per via di un’aggiunta rituale: la benedizione delle candele, ispirata dallo stesso brano evangelico di Luca, poiché qui il Bambino è definito “luce per illuminare le genti” (Lc 2,32).
Così la puerpera sarda, trascorsi i canonici 40 giorni dal parto, si recava in chiesa con la madre, la comare o la levatrice, portando con sé l’infante, come Maria, e come lei consegnava al sacerdote una coppia di colombi (cf. Luca 2,24), aggiungendo però del vino e un dolce fatto in casa. Inoltre, teneva in mano una candela accesa, richiamando la tradizione della Candelora: già alla metà del XII secolo, in una vetrata della Cattedrale di Chartres in Francia, sono raffigurate delle figure femminili che portano un cero acceso e due colombi, mentre seguono Maria con il Bambino.
Si trattava, infatti, di una prassi esistente anche altrove e codificata dalla Chiesa nella liturgia anteriore alla riforma di Paolo VI, dove era definita “benedizione della donna dopo il parto”.
Ma in Sardegna tale prassi appariva particolarmente fedele al Vangelo di Luca – per il rigoroso rispetto dei 40 giorni, per l’offerta dei colombi e per un’idea di purificazione percepita come un dovere – secondo i ricordi raccolti nei siti web di diversi Comuni isolani e documentati anche dalla studiosa Anna Costantino Evangelista. Nella liturgia istituzionale, invece, era presentata come una scelta facoltativa per la puerpera che “subito dopo il parto, secondo una pia e lodevole consuetudine, vuole recarsi in chiesa per rendere grazie a Dio per la sua incolumità, e chiede al Sacerdote la benedizione”.
Ma di quale purificazione aveva bisogno la partoriente cristiana secondo la tradizione sarda? E perchè “su tempus de s’incresiai” era preceduto da un ritiro di 40 giorni durante i quali la madre non usciva mai di casa, quasi fosse una reclusa? Per provare a rispondere a queste domande appare logico partire da Maria, vista anche la grande devozione mariana diffusa nell’isola.
Nel caso della madre di Gesù, la risposta è fornita da san Paolo, il quale dice che “Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge” (Gal 4,4): infatti Maria era un’ebrea osservante; perciò, non è strano che avesse rispettato l’antica norma di Israele sulla purificazione delle partorienti (Levitico 12,2-4). Al tempo stesso, poiché fin dagli albori del cristianesimo Maria è stata considerata la “tutta pura”, i commentatori del Nuovo Testamento sono concordi nel ritenere che la Madre di Dio non sarebbe stata tenuta a farlo. Come ha scritto Benedetto XVI, “Maria non ha bisogno di essere purificata a seguito del parto di Gesù: questa nascita porta la purificazione del mondo. Ma ella obbedisce alla Legge e serve proprio così all’adempimento delle promesse”. Come dicono le preghiere della novena della Candelora, lo fece per “eroica obbedienza”, per “angelica modestia”, per “santa premura” e per “umiltà profondissima”.
Proprio queste virtù evangeliche di Maria potrebbero costituire una chiave di comprensione per la tradizione sarda. In effetti nel Medioevo, a partire da San Bernardo († 1153), si era affermata quella che oggi i teologi chiamano la “via pulchritudinis”, o della contemplazione della bellezza interiore di Maria: un cammino di purificazione e di crescita spirituale sulle orme di Maria, la “tutta bella” e la “piena di grazia”, della quale si riconosceva il valore esemplare e universale per tutti coloro che volevano essere dei veri cristiani.
In tal senso appare emblematico un libretto popolare, attribuito a Tommaso da Kempis (1380-1471) e intitolato “Imitazione di Maria”, nel quale la purificazione rituale della madre di Gesù aveva ispirato questa preghiera: “Che la tua integrità verginale scusi la mia impurità, sia della mente sia del cuore; la tua carità accenda la mia tiepidezza; la tua umiltà abbassi la mia superbia; la tua spontanea obbedienza infranga la durezza della mia volontà perversa. Offro anche due piccoli nati da colomba: il doppio desiderio di custodire nel cuore la doppia semplicità di non rendere a nessuno male per male, e di vincere sempre il male con il bene. Degnati di concedermi tutto questo, o buon Gesù, che fosti presentato oggi nel Tempio dalla tua umile Vergine Madre”.
Nel caso della puerpera sarda, quindi, poteva trattarsi del desiderio di una purificazione spirituale motivato dal voler imitare la santità della madre di Gesù e radicatosi nel sentire popolare, tenendo conto che la prassi di encresiari è sopravvissuta in Sardegna almeno fino ai primi anni Sessanta.
Appare comunque interessante soffermarsi anche sulla tradizione ebraica della purità rituale, visto che sono stati già segnalati in questa rubrica alcuni contatti profondi intercorsi nei secoli tra questo popolo e quello sardo.
Nell’ebraismo il parto rende la madre teme’ah, termine che è tradotto in italiano con “impura” ma non riguarda un peccato o una macchia dell’anima, né una condizione fisica, bensì uno specifico stato spirituale che per un certo tempo impedisce o esonera dal contatto diretto con ciò che è sacro, dunque il tempio e gli adempimenti liturgici, secondo quanto riporta il Libro del Levitico.
Come spiega il Rabbi Jonathan Sacks, questo stato dipende dall’emissione di sangue che avviene durante il parto e che, secondo l’ebraismo si traduce in una perdita di vitalità-vita spirituale: ciò ostacola l’unione con Dio, che è il Signore della vita, e alla puerpera occorre del tempo per ritornare all’integrità iniziale. È un principio che va collocato nella concezione dell’ebraismo visto come religione della vita, per cui i suoi membri sono estremamente sensibili alle più sottili manifestazioni del confine tra vita e morte.
Il Rabbi Sacks sottolinea che il parto conduce la donna a sperimentare proprio tale confine, poichè “una madre che genera un figlio, oltre ad andare incontro a un grave rischio (fino a tempi non molto lontani il parto era una frequente causa di morte sia per le madri che per i bambini), sperimenta anche la separazione da qualcosa che prima appariva come una parte del suo corpo”. Se questo vale per un figlio maschio, è doppiamente valido per la nascita di una femmina (che essendo dello stesso sesso è una piccola copia di sé): difatti il tempo di ripristino della purità per la puerpera ebrea è di 40 giorni se il figlio è di sesso maschile e 80 giorni se si tratta di una femmina.
Ogni donna contiene in sé la propria figlia, oltre che la propria madre, ha scritto lo psichiatra Carl Gustav Jung, e la maternità è un modo per imparare a separarsi da entrambe. Inoltre, quella sottile linea tra la vita e la morte sperimentabile dalla partoriente, che in passato si traduceva nella paura di morire, anche a causa dei pochi controlli e delle minori cure mediche, oggi sarebbe comunque rimasta come deposito inconscio, trasmessa attraverso il transgenerazionale.
Un altro motivo per la lontananza della puerpera ebrea dal tempio può essere ravvisato nel principio per cui “Chi è occupato a compiere un precetto, è esente da altri precetti” (Talmud, Sukkah 26a).
In questo caso il prendersi cura del neonato è il precetto che la esenterebbe da quello degli adempimenti liturgici. Ciò si ricollega alla particolare attenzione che l’ebraismo riserva alle nascite e alla consapevolezza che la madre è impegnata in uno dei compiti più sacri che esistano, quello di nutrire e accudire il proprio bambino. Perciò è come se lei si trovasse già al cospetto di Dio e quindi è esonerata dal recarsi nel santuario. Infatti, con il parto ha potuto “intravedere un grande segreto noto soltanto a Dio”, ossia “l’amore che genera la vita”, poiché “al contrario degli uomini, le donne sanno cosa significa dare alla luce una nuova vita” e questo le rende più vicine a Dio che è fonte della vita.
Entrambi i motivi si riferiscono alla stretta vicinanza di vita e morte che si dà peculiarmente al momento del parto, pur mettendo l’accento più sull’aspetto della morte o su quello della vita, più sull’impedimento o sull’esonero. In comune vi è la necessità di un tempo prefissato per la ripresa della vita normale, un tempo che nella tradizione sarda era standardizzato in 40 giorni per i nascituri di entrambi i sessi e che oggi, guarda un po’, è lo stesso tempo convenzionalmente indicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per il puerperio.
Un ritorno al passato? Di sicuro la scienza sembra allinearsi alla tradizione quando sottolinea che il periodo che inizia subito dopo il parto e che dura circa 6 settimane (40 giorni!), rappresenta il momento più critico per la donna. Il puerperio è un delicato tempo di recupero, sia fisico che psicologico ed emotivo. La neomamma, già prostrata dalla gravidanza e dal parto, deve fare i conti con gli stravolgimenti ormonali, la necessità di cure (dalla medicazione del cordone ombelicale alla guarigione del perineo), la mancanza di sonno, l’allattamento, le esigenze del bambino, le aspettative proprie e altrui. Oggi si parla addirittura di “nascita della madre” dopo il parto, indicando così che le occorre tempo e aiuto, anche quando non è il primo figlio, perché ogni volta è un’esperienza a sè.
Il fatto che la puerpera in Sardegna non uscisse di casa per 40 giorni, nemmeno per fare una commissione, risponde alle attuali linee guida dell’OMS secondo cui, durante il puerperio, la madre e il bambino non dovrebbero essere separati e devono stare nella stessa stanza 24 ore al giorno. La “quarantena” (per modo di dire, perché la neomamma sarda riceveva tutte le visite che voleva) era un modo per concentrarsi sul neonato e su di sé, senza doversi (pre)occupare di nient’altro, come un riposante utero familiare e sociale, in cui il cerchio delle donne poteva darle sia un aiuto pratico che un conforto, nel breve e nel lungo termine.
Se oggi una delle raccomandazioni dell’OMS è l’allungamento della relazione ostetrica/mamma
nel periodo del post parto, ecco che nel 1882 a Siliqua era già una realtà istituzionale: la levatrice era un’impiegata comunale, assunta tramite bando di concorso, che aveva non solo il compito di assistere la partoriente dall’inizio alla fine del parto, ma anche quello di recarsi a casa sua per otto giorni per lavare e vestire il neonato; inoltre poteva presentarlo al battesimo, anche se di solito veniva scelta una ragazzina tra i vicini o i parenti, poiché la mamma non poteva uscire e il nascituro veniva di norma battezzato all’ottavo giorno (anche al bambino Gesù, nel Vangelo di Luca, viene messo il nome dopo otto giorni). A sa levadora spettava, poi, lavare la prima camicia della puerpera e infine accompagnarla in chiesa po s’incresiai.
Silvia Urbani, esperta in Postpartum care, osserva che la cultura contemporanea fa pressione sulle donne affinchè siano sempre più veloci, performative, competitive, auto-sufficienti; invece, laddove c’è una cultura tradizionale ancora intatta, esiste l’usanza di dedicare un esteso periodo di riposo alla neomamma, in cui lei si “ritira” dal mondo per lasciarsi accudire e così occuparsi solo del suo bambino. Una sapienza che è ben espressa nella lingua swahili dalla parola “Mamatoto” – ossia “mammabambino” – per indicare che durante il tempo del puerperio la madre e il neonato non sono due persone separate, ma formano un’unità interconnessa e ciò che fa bene all’una fa bene all’altro.
Padre Marco Sales, nel suo Commentario al Levitico, annota che anche presso gli antichi greci la puerpera poteva ritornare al tempio solo dopo 40 giorni (da notare che in Grecia la stanza della casa riservata alle donne era chiamata gineceo, parola che deriva da “donna” e “partorisco”), così come ci voleva del tempo anche presso gli antichi romani, gli indiani, i persiani e gli arabi, che consideravano pure loro la puerpera non pura. Il che lascia supporre che le leggi di Mosé fossero note a molti popoli antichi, tenendo conto che il Libro del Levitico è stato scritto tra il 1447 e il 1250 a.C., un anno o due dopo l’esodo di Israele dall’Egitto, e che i Giudei si erano diffusi un po’ ovunque.
Al di là della terminologia usata – e delle relative interpretazioni più o meno sessiste – si può notare che la sostanza non cambiava: il post parto era un tempo che richiedeva delle cautele.
E forse l’idea della purificazione spirituale si era sviluppata a partire dall’osservazione di un particolare aspetto del puerperio, quello che oggi la medicina definisce baby blues o maternity blues e che, se trascurato, può sfociare in una depressione post partum anche molto grave.
Anche in tale ottica la tradizione sarda sembrava possedere una certa sapienza.
(continua)
Immagine: Dettaglio di una miniatura dallo Stato Monastico Autonomo del Monte Athos (EL)