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SARDEGNA SIMBOLICA – L’antica “quaresima” delle neomamme (8)

Una rubrica dedicata alla spiritualità del popolo sardo

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Nell’articolo precedente, la festa della Candelora è stata l’occasione per approfondire l’antica tradizione sarda legata al post-parto, che prevedeva un ritiro dal mondo lungo 40 giorni, fino alla prima uscita per ricevere s’incresiai in chiesa.

 

Un tempo sacro di attesa, purificazione e rinnovamento, noto non solo alla cultura cristiana ed ebraica ma anche a quella pagana, che nell’indagine della volta scorsa ha rivelato interessanti affinità con la moderna psicologia dell’inconscio e inaspettate somiglianze con le linee guida scientifiche dell’OMS sulla salute fisica e psicologica della puerpera, per la quale il ritorno alle condizioni anatomo-funzionali anteriori alla gravidanza è convenzionalmente fissato proprio in 40 giorni (6 settimane): un periodo delicato da tenere d’occhio sotto diversi aspetti.

 

Colpisce come la scienza certifichi il valore tradizionale di questi 40 giorni, che del resto si basano fin dall’antichità su un numero denso di significato: secondo lo psicanalista e medico René Allendy, il quaranta esprime la realizzazione di un ciclo, o meglio ancora il ritmo delle ripetizioni cicliche dell’universo. È infatti il numero che accompagna il passaggio a una condizione di vita nuova, così come indicano i 40 giorni della Quaresima, o anche i 40 giorni del diluvio universale.

In quest’ottica il quaranta evoca pure un parallelo: così come occorrono 40 settimane di gestazione per la nascita di un bambino, allo stesso modo si potrebbe dire che la tradizione fissava un tempo di 40 giorni per la “nascita” di una madre, cioè per imparare a comprendere e a vivere il nuovo e non semplice ruolo materno.

 

Un proverbio sardo raccolto dal linguista Giovanni Spano recita: “A sa femina partorza istat sa sepoltura barante dies abberta” – Alla puerpera sta aperta la sepoltura (la fossa) per quaranta giorni. In effetti, ancora oggi, il post partum è uno dei periodi della vita a maggior rischio per le donne. Sul portale del Ministero della Salute si legge che la causa più frequente delle morti materne precoci – ovvero entro 42 giorni dalla nascita – è l’emorragia, responsabile del 43,5% del totale dei decessi, seguita dai disordini ipertensivi della gravidanza (19,1%) e dalla tromboembolia (8,7%), a cui si aggiungono cause minori come le infezioni e perfino l’influenza. Questa mortalità materna in Italia è notevolmente diminuita, grazie soprattutto ai progressi dell’informazione e della diagnosi, ma continua nei Paesi meno sviluppati.

 

Alla luce di questi dati risalta ancora di più il monito dell’antico proverbio sardo, come se avesse avuto quasi una funzione di prevenzione, e al tempo stesso suscita una domanda: questo detto si riferiva soltanto alla salute del corpo o alludeva pure a quel particolare stato di tristezza depressiva legata al post-parto, oggi conosciuta come baby blues, per cui l’idea della sepoltura che rimaneva aperta per 40 giorni poteva avere un significato più ampio? Questa domanda nasce da un duplice motivo.

 

Il primo è che ora si conosce il drastico cambiamento ormonale che investe la donna subito dopo il parto e che, insieme alla spossatezza fisica e mentale propria della sua nuova condizione, provoca nel 70% delle puerpere alcuni sintomi depressivi: rapidi sbalzi d’umore, irritabilità, angosce di separazione, senso di vuoto, ansia, sentimenti di inadeguatezza, diminuzione della concentrazione, insonnia, crisi di pianto, cefalea, disturbi alimentari (Reck, Stehle, Reinig, & Mundt, 2009). Questo quadro, definito appunto baby blues, o maternity blues, è di norma individuabile e risolvibile entro le prime due settimane, ma se non viene riconosciuto e se persiste può trasformarsi in una depressione post partum con picchi anche pericolosi per l’incolumità della madre e/o del bambino.

 

Il secondo motivo è legato al forte aspetto simbolico della lingua sarda, che l’antropologo e scrittore Bachisio Bandinu definisce un parlare mascherato, obliquo, tutto di rimandi, evidenziando ad esempio che la parola coltello ha ben 22 metafore: una ricchezza di significati che si sviluppa dal “parlare come un coltello affilato” fino al “parlare come un coltello senza lama”. C’è insomma nella cultura isolana un linguaggio nascosto che richiede acutezza, perché l’inconscio sardo è complesso, è un’anima labirintica che rispecchia la propria terra, ossia il mondo sotterraneo del pozzo sacro, delle radici, dei fiumi che si interrano per molti chilometri, dei coralli che crescono sotto l’acqua e non si vedono.

 

In tal senso il richiamo alla fossa aperta della puerpera poteva essere un avvertimento con più livelli di significato, non solo la vigilanza sul piano della salute corporale, ma anche la consapevolezza del rischio per la neomamma di una depressione latente. Dunque, una sapienza popolare derivata dall’esperienza sul campo di generazioni di donne, come se si sapesse già allora ciò che è noto oggi, ossia che il mancato riconoscimento e superamento del baby blues, evento di per sé nella norma, può innescare delle reazioni depressive a catena che, nei casi più estremi, influiscono sul rischio di suicidio e di infanticidio.

 

Il Ministero della Salute evidenzia che, tra le morti materne registrate nell’intervallo tra 43 giorni e 1 anno dal parto, un quarto è dovuto a suicidi; non esistono invece dati precisi sulla frequenza dell’infanticidio – così chiamato perché avviene entro il primo anno di età del bimbo – in quanto spesso è difficile separarlo dagli incidenti domestici (fonte: AIPG – Associazione Italiana di Psicologia giuridica). In entrambi i casi appare chiara l’importanza dei 40 giorni di puerperio come tempo di assestamento, monitoraggio e prevenzione per la salute psicofisica della donna, ma anche come tempo del riposo, della cura di sé e della costruzione della comunione madre-figlio.

 

Oggi l’esperienza complessa del post-parto, ricca non solo di luci ma anche di ombre e penombre, è oggetto di mostre fotografiche, documentari, film e blog, che contribuiscono a far conoscere sia lo scombussolamento fisico e psicologico, sia la falsità dello stereotipo che impone alle neomamme di provare emozioni solo positive, facendole sentire in colpa in caso contrario e favorendo così il rischio di rimuovere certi campanelli d’allarme. Tutte cose che la tradizione sarda sembrava conoscere.

 

Per esempio, come riporta l’antropologa Agostina Bua, a Seui si diceva che le partorienti avessero un’ombra, un’ombra brutta, che le accompagnava dopo il parto e che andava via il giorno di “s’incresiai”. Un’immagine che sembra evocare il termine “male oscuro” con cui oggi viene chiamata la depressione e sembra far coincidere l’attraversamento dei canonici 40 giorni con l’uscita dal pericolo (sancita pure da una benedizione in chiesa), in linea con l’attuale idea di spartiacque assegnata al periodo di 40 giorni del puerperio.

 

Inoltre, appare degno di nota il forte simbolismo contenuto nelle antiche leggende sarde sui pericoli che minacciavano le donne dopo il parto e che forse servivano ad esorcizzare quelle dinamiche consce e inconsce che oggi vengono definite baby blues e depressione post partum.

Si narra infatti di demoni in agguato sotto il letto della puerpera, così come si parla del fantasma della morta di parto (sa pana) che sembrava insidiare la puerpera in base al detto “Serraimi sa porta, chi intra finza sa morta, serrai sa vantana, chi intra ventu a sa pana” (Chiudimi la porta che entra anche la morta, chiudete la finestra che entra vento alla pana). È interessante notare che questa tipologia di fantasma esiste pure in altre zone d’Italia e d’Europa: si tratta di una partoriente penitente, condannata a lavare i panni nel fiume come un atto espiatorio dal richiamo dantesco, che in Francia è identificata con lo spettro della madre infanticida.

 

Queste immagini potevano forse avere la funzione catartica e quasi terapeutica di portare alla luce, in una veste simbolica e velata, degli argomenti tabù che diventavano socialmente accettabili se presentati sotto questa forma: ad esempio, il diavolo che faceva la posta alla puerpera poteva essere considerato la causa di eventuali pensieri neri e stati depressivi, assolvendo così la neomamma da sensi di colpa e meccanismi di rimozione che le avrebbero impedito di affrontare il problema e reagire ad esso.

 

Circa lo spettro della pana, poi, è interessante notare che tale termine viene riportato per la prima volta nel dizionario regionale del linguista Vincenzo Porru edito nel 1832, dove è semplicemente spiegato come sinonimo di partera (puerpera), così come nel vocabolario di Spano edito nel 1851: in entrambi i casi la voce non è associata a uno spettro o ad una partoriente morta, quasi la pana fosse originariamente un altro modo di chiamare la puerpera, come una sorta di alter ego, poi divenuto oscuro. In questa linea di discorso si può anche pensare alla figura della koga presente nella mitologia sarda: una donna facente parte della società umana che, a una certa ora della notte, si trasforma in una specie di strega vampiro e si reca nella camera delle puerpere per uccidere i bambini nati di recente.

 

Se è vero che le fiabe parlano direttamente all’inconscio, lo stesso poteva valere per questi racconti popolari, tenuto conto che la psicanalisi attinge spesso ai miti: basta pensare al complesso di Edipo. Infatti, la funzione principale dei miti è quella di dare una forma discorsiva e narrativa a una verità che non può essere detta e trasmessa con una definizione diretta ed esplicita, ma solo con un linguaggio indiretto e analogico (un “come se”), cioè in modo mitico (Francesco Corrao, 1992).

 

Oggi gli studi psicologici sottolineano l’importanza di non ignorare gli stati d’animo provocati dal baby blues e dai sintomi depressivi in genere, insistendo sulla necessità di parlarne con altre persone, specie con altre future o neo mamme che possono recepire le stesse sensazioni: in tal senso si comprende bene – anche nella cultura sarda – la funzione dei miti intesi come sistemi di notazione e di registrazione per lo sviluppo dei gruppi, in quanto il mito può anche essere considerato una forma primordiale di pubblicizzazione, o comunicazione, da parte del singolo, della sua conoscenza privata al suo gruppo (Wilferd Bion, 1963).

 

Così l’antica funzione purificatoria attribuita ai 40 giorni della puerpera, quasi fosse una quaresima intima e domestica, inquadrabile come un’esperienza psicologica ed emozionale che può essere riletta anche attraverso la mitologia sarda, poteva avere una valenza originaria molto profonda e significativa, pienamente comprensibile e apprezzabile solo con le attuali conoscenze scientifiche.

A conferma del fatto che “narat bene se diciu” (“dice bene il proverbio”).

 

Immagine: Natività della Vergine, 1629, olio su tela, 141 × 109 cm, Los Angeles, Princeton University.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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