La scrittrice sarda Michela Murgia, dopo aver rivelato che è malata di cancro e che ha acquistato una casa «dove la mia famiglia queer può vivere insieme», ha illustrato sui social i tratti di questa famiglia che si fonda non sui legami di sangue o legali, ma su un rapporto profondo di cura e supporto reciproci.
La scrittrice si rifà al pensiero queer, termine di derivazione anglosassone il cui significato letterale è “strano, insolito, fuori dalla norma”, spiegando che la sua famiglia è un «nucleo familiare atipico, in cui le relazioni contano più dei ruoli. Parole come compagno, figlio, fratello non bastano a spiegarla», tant’è che la Murgia ricorre a due terminologie sarde ricche di sfaccettature: da una parte gli appellativi sa sposa e su sposu che nell’isola vengono curiosamente utilizzati in modo trasversale e generale, e dall’altra il concetto isolano di fille e’anima.
Nel primo caso, sebbene il significato letterale sia fidanzata/fidanzato, il binomio sa sposa/su sposu «è piegato di continuo a rapporti che col fidanzamento non hanno nulla a che fare, così come col genere o con l’età» poiché queste parole vengono affettuosamente usate anche tra genitori e figli, tra nonni/zii e nipoti, tra fratelli e sorelle, tra amici e amiche. Di conseguenza nella queer family della Murgia «non c’è nessuno che non si sia sentito rivolgere il termine sposo/sposa in questi anni».
Secondo la scrittrice «è come se l’intera isola tutti i giorni tenesse insieme i ruoli attraverso la categoria del fidanzamento e a pensarci bene è curioso, perché è una categoria incompiuta (una promessa) e non rappresenta alcun titolo famigliare» visto che i fidanzati e le fidanzate «indicano l’elezione affettiva, non un ruolo», ma proprio per questo appare come «una postura sentimentale molto bella da esercitare».
L’origine di questa consuetudine linguistica non è indicata dalla scrittrice, ma è interessante osservare che nella tradizione sarda la fidanzata-sa sposa e il fidanzato-su sposu erano già equiparati alla moglie e al marito, non solo perché il fidanzamento era preludio alle nozze ma anche perché le stabiliva come vincolo. Infatti, l’annuncio del fidanzamento era accompagnato dall’assicuronzu, ossia l’assicurazione formale delle nozze, e da una festa con tutti i parenti: due atti che di fatto rendevano la fidanzata e il fidanzato, di fronte alle loro famiglie e alla comunità, già sposo e sposa prima ancora che lo diventassero.
Inoltre, durante l’assicuronzu, il fidanzamento veniva suggellato con l’anello Maninfide (man’e fidi, le mani in fede) raffigurante due mani che si stringono, emblema di un vero e proprio patto sponsale. Infatti, questo era l’antico gesto che nel mondo classico e cristiano veniva compiuto dall’uomo e dalla donna proprio al momento del “sì” delle nozze. Perciò, anticipando in modo simbolico questa stretta di mano nuziale, tramite l’anello di fidanzamento che la riproduceva, era come se in Sardegna il fidanzato e la fidanzata si stessero già proiettando in avanti e si vedessero già sposati.
Come scriveva nel 1897 Francesco Poggi, nel suo Usi natalizi, nuziali e funebri della Sardegna, «in fatto di matrimoni, nell’isola non si scherza; la fede giurata è sacra, inviolabile; avere poi impegnata la parola, dopo aver goduto gli effetti abbastanza positivi dell’assicuronzu, è lo stesso di avere impegnata la pelle!»
Perciò il fidanzamento in Sardegna non appare tanto come una categoria incompiuta, ma piuttosto come una categoria in fase di compimento. Allo stesso modo la sua valenza sembrava basarsi non solo su un’elezione amorosa, ma anche sul valore della parola data, su un patto solenne che, per la sua portata e il suo peso, rendeva il fidanzamento già e non ancora sposalizio.
Nella tradizione sarda esisteva pure un’altra unione delle mani che era vincolante come quella del rito nuziale: il patto di amicizia eterna che veniva stretto durante i fuochi di San Giovanni a giugno. In questa occasione i compari e le comari saltavano insieme il falò e si stringevano le mani dicendosi: «Compa’, Coma’, a chent’annos». Una stretta di mano e una promessa che sembravano imitare metaforicamente l’alleanza di chi si fidanzava-sposava, tanto più che l’occasione scelta era la festa di san Giovanni Battista: colui che nel vangelo si autodefinisce «l’amico dello sposo» (Gv 3,29).
Questo forte senso sardo del patto, che in questo caso significava sposare l’essenza dell’amicizia e promettersi aiuto, lealtà e sostegno reciproci per tutta la vita, potrebbe essere alla base della singolare estensione di linguaggio isolana che porta tuttora ad applicare i termini sa sposa e su sposu ad amiche e amici, oltre che a parenti stretti come genitori e figli, nonni e nipoti, fratelli e sorelle.
Come se, in tutti questi ruoli, ci fosse una postura dinamica volta a richiamare l’impegno affettivo preso, sia per confermarlo che per portarlo a compimento, assumendo sa sposa e su sposu come modello relazionale. Quasi un linguaggio subliminale per ricordarsi che in ogni relazione si avanza di tappa in tappa e si progredisce tanto nell’amicizia quanto nella genitorialità e in ogni altro legame umano, proprio come avviene nel fidanzamento, che rappresenta l’inizio del cammino e insieme anticipa già lo sviluppo successivo.
È interessante notare che questo slancio in avanti è presente pure nel linguaggio biblico: nella Genesi, come evidenzia il teologo Giorgio Mazzanti, si usa per l’uomo e per la donna un verbo al futuro – «i due saranno una sola carne» – che indica un movimento e un orizzonte prospettico. Si vuole cioè significare che l’unione, l’essere uniti, è un punto di arrivo, non solo di partenza, e questo è paradigmatico per ogni legame umano.
Nel Libro di Osea, poi, i due momenti del fidanzamento e del matrimonio appaiono così intrecciati che i rispettivi termini vengono usati come sinonimi: «Ti farò mia sposa per sempre […] ti fidanzerò con me nella fedeltà» (Os 2,21-22) e i rabbini, nel commentare questo passo, dicono che sposarsi equivale a fidanzarsi per l’eternità.
Ne consegue che nella tradizione ebraica il fidanzamento è già il primo atto legale del matrimonio: una funzione fondamentale ed essenziale, di cui le nozze costituiscono il completamento perché introducono la coabitazione, ma di fatto la fidanzata, pur vivendo a casa sua, è considerata già moglie del suo futuro marito, al punto che lo scioglimento del legame è possibile solo con il ghet (documento di separazione) o con la morte del promesso sposo.
Lo stesso processo di identificazione tra fidanzamento e matrimonio avviene tra i cristiani dei primi secoli, che considerano la rottura del fidanzamento addirittura un adulterio e un sacrilegio (Concilio di Trullo e Decretale di Siricio), presumibilmente sulla base del medesimo testo biblico e anche per l’influsso esercitato dall’ebraismo sui primi apostoli di Gerusalemme e sulle iniziali comunità cristiane mediorientali.
La somiglianza dell’assicuronzu con il patto nuziale della Bibbia, e con la cultura ebraica che ne riprende il significato, non sorprende se si rammenta che queste due fonti hanno già lasciato tracce significative nelle tradizioni isolane (ritornano in mente le parole di passo cixiri–shibboleth, o anche su barralliccu e il dreidel dei bambini ebrei, esempi già menzionati nei mesi scorsi), senza dimenticare il retaggio cristiano di cui la Sardegna è permeata.
Si può pure osservare che in alcuni testi biblici il termine «sposa» viene affettuosamente alternato ai termini «amica» e «sorella», sia nel Cantico dei Cantici (1,15; 2, 10.13; 4,1.7.9; 5,1-2; 6,4; 8,1) sia nel Libro di Tobia (7,15; 8,4; 10,6.13). Inoltre, nella Bibbia il linguaggio sponsale è applicato simbolicamente nella sua massima estensione possibile, ossia nel legame umano-divino. Infatti, nell’Antico Testamento Dio è visto come lo sposo e Israele come la sposa, mentre nel Nuovo Testamento lo sposo è Cristo e la sposa è la comunità dei credenti, come scrive san Paolo ai Corinzi: «Io vi ho promessi a un unico sposo, per presentarvi a Cristo come vergine casta» (2Corinzi 11,2). Nella mistica cristiana, l’anima è considerata anche la sposa del Verbo.
Del resto il linguaggio esteso caratterizza i cristiani fin dagli inizi, al punto che lo stesso concetto di “famiglia queer”, riassunto da Michela Murgia come «definizione ombrello in cui rientrano tutte le forme di relazione stabile organizzata che vanno oltre il modello riconosciuto dalla legge italiana», sembra derivare dal cristianesimo se si considera la singolare unione esistente tra le persone battezzate nell’ambito dell’organizzazione ecclesiale, sebbene tale unione non abbia alcun valore legale per lo Stato.
Una relazione in cui si entra a far parte della figliolanza di Dio e della fratellanza in Cristo, come ricorda san Paolo ai Romani «avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo ‘Abbà, Padre!’» (8,15) e ai Galati: «Tutti voi, infatti, siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio o femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,26-28).
Nei Vangeli Gesù equipara le persone che lo circondano a una famiglia: «Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,22), «perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50). Il termine «sorella» è adoperato anche da San Paolo per indicare la donna cristiana: chiama così Febe («Vi raccomando Febe nostra sorella» (Rom 16,1), come pure l’amica a cui indirizza una lettera («alla sorella Appia», in Filemone 2).
Poco prima di morire, poi, Gesù si rivolge alla Madonna e all’evangelista Giovanni che sono accanto a lui ai piedi della croce, indicando a Maria il discepolo e dicendole «Ecco il tuo figlio!», mentre al discepolo annuncia «Ecco la tua madre!»: un modello relazionale che la filiazione d’anima della tradizione sarda sembra aver ripreso e che san Paolo estende a ogni persona quando scrive che Dio chiama tutti ad assomigliare a Cristo «perché egli sia il primogenito tra molti fratelli» (Rom 8,29).
Ma il concetto di famiglia queer più potente è quello espresso nel Vangelo di Giovanni, in cui Gesù dice: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Per Gesù l’amore più grande non è quello dettato dal sangue o dalla natura, ma un amore scelto e voluto liberamente, che metterà in pratica lui stesso e che lascerà in eredità ai suoi, al punto che secondo la testimonianza di Tertulliano i pagani si stupivano dei primi cristiani dicendo: «Vedi come si amano fra loro e sono pronti a morire l’uno per l’altro» (Apologetico, XXXIX,7).
Salta all’occhio che i principi cristiani sono una matrice universale e un terreno d’incontro, ma se si omette la figura di Cristo che li ha incarnati e che invita a vivere e agire come lui, diventano una mera astrazione e perdono il loro senso profondo sul piano della reciprocità, col rischio di una visione ipersessualizzata delle relazioni umane.
Succede, ad esempio, quando i cristiani sono tali solo di nome ed emarginano qualcuno a causa della sua omosessualità, ma pure quando tradiscono sessualmente la persona a cui hanno giurato fedeltà “finchè morte non ci separi”. Ma capita anche quando la queerness viene ristretta al solo genere biologico – associando il termine queer alle persone gay, lesbiche, bisessuali, pansessuali, transessuali, asessuali, transgender e/o intersessuati – a scapito di quella ampiezza di pensiero che, come nel caso dell’attivista queer Jack Halberstam, analizza il desiderio di un mondo in cui nessuno ce la fa da solo e nessuno viene lasciato indietro.
Foto: Michael Pacher, Sposalizio di Maria e Giuseppe, particolare di pala dall’altare, 1495-1498 circa, Österreichische Galerie, Vienna.