Nell’articolo precedente è stato abbozzato un parallelismo tra la poesia estemporanea sarda orale e la boonimia isolana avvezza a chiamare i gioghi di buoi con due mezze frasi che, pronunciate insieme per incitare i due animali, formano un breve enunciato arguto, ironico o saggio, udibile da chi è nei paraggi.
Entrambe le tradizioni potrebbero essere scaturite da quell’istinto poetico a 360 gradi che sembra far parte del bagaglio genetico dei Sardi, un’indole che il giornalista Stanislao Manca, in un articolo del 1909 sui poeti improvvisatori della Sardegna, descriveva così: «Il sentimento della poesia – sentimento e arte, ripeto – è diffuso nel popolo sardo, è un istinto misterioso che lo guida verso la bellezza, e lo fa prorompere in un linguaggio che sa tutte le armonie del verso, fondendo il tipico dialetto in strofe ricche di forza e di grazia».
E ancora: «Chi sono dunque questi poeti della Sardegna? Sono pastori vaganti e solitari, che inventano e modulano i loro canti conducendo le gregge al pascolo, sono contadini i quali nelle aie, nelle vigne, negli uliveti, durante i riposi all’ombra, o nelle lunghe notti d’inverno, disputano in poesia provocando dei veri certami poetici, e sono perfino degli artigiani e de’ piccoli professionisti che leggono il giornale e traggono dagli avvenimenti del giorno le loro ispirazioni. Ma nessuno di essi scrive e tanto meno medita il proprio parto poetico. Tutti invece si abbandonano alla più schietta, alla più rapida estemporaneità, fino ad acquistare quella fama che godono di famosi improvvisatori presso il popolo».
Da questa inclinazione a “poetare” nel quotidiano, continua il giornalista, «è sorta e si è mantenuta in Sardegna la tenzone poetica, curiosa sfida, che tanto appassiona tutti gli isolani» e che tuttora si svolge nelle piazze durante le feste religiose più importanti, quando i poeti improvvisatori gareggiano su un tema estratto a sorte e duettano in botte e risposte, appassionando il pubblico per il brio e l’ingegno dei loro versi composti sul momento.
Questo gusto sardo per l’improvvisazione poetica orale – sia nel praticarla per diletto o da professionisti, sia nel respirarla nei propri ambienti e assistervi da spettatori durante gli eventi ufficiali – poteva allora aver trovato un’applicazione rustica e quasi spontanea nella composizione dei nomi propri dei buoi?
Questi nomi-frase sembrano avere in comune con la poesia estemporanea sarda non solo la fulmineità e l’acutezza, ma anche un sottofondo di sfida e di schermaglia, basta pensare a coppie di nomi come Connotu hapu – A chini ses (Ho conosciuto – Chi sei), o anche S’allènu – Ddu perdis (La roba non tua [sottratta a un altro] – La perderai).
Sia la poesia estemporanea che la boonimia sono state per lo più tramandate a voce e a memoria. Le prime trascrizioni di intere gare poetiche risalgono alla fine del 1800, mentre per quanto riguarda le denominazioni dei buoi esiste forse qualche carta giuridica (atti di vendita-acquisto o di affitto degli animali, inventari post-mortem, ecc).
Ma perché proprio i buoi e non altri animali? Certo, il fatto che lavorassero in coppia ha reso possibile la composizione di due mezze frasi da unire. Tuttavia, potrebbe esserci dell’altro, qualcosa la cui origine risale agli antichi autori classici greci e latini, fino a giungere a Giovanni Pascoli: una diffusa metafora agricola che associava l’arare allo scrivere e anche al comporre poetico.
La metafora agricola era stata ispirata dall’antico sistema di scrittura sulle tavolette di cera, basato sull’atto di incidere tramite uno stilo che tracciava un solco nella cera, evocando così l’immagine dell’aratro che dissoda le zolle di terra. A ciò si aggiungeva un’ulteriore analogia: il fatto che la scrittura e l’aratura seguissero il medesimo andamento bustrofedico, cioè da sinistra a destra e poi da destra a sinistra.
Perfino quando muta il supporto scrittorio, la metafora persiste: in un celebre indovinello veronese dell’VIII secolo, l’aratro è divenuto la penna, i buoi sono le due dita che guidano la penna, il campo è il foglio e l’inchiostro è paragonato alla semente.
Anche dal punto di vista etimologico vi è traccia di questa connessione tra l’aratura e la scrittura: emblematico in tal senso il termine versus, che ha indicato dapprima il volgere dell’aratro alla fine del solco, poi il solco stesso e, infine, la riga di scrittura e anche il verso poetico, come riepiloga sant’Isidoro di Siviglia all’inizio del VII secolo.
Il senso più astratto del lessico agricolo, quello che si sgancia dal legame con le tavolette cerate e in generale dall’atto concreto della scrittura, è già presente negli scritti di poeti greci come Pindaro (518 a.C.- 438 a.C.), che definisce il poeta un “aratore delle Muse”, e Callimaco (310 a.C. – 235 a.C.) che non vuole “arare” il campo smisurato della poesia epica, mentre il romano Quintiliano (I sec. d.C.) impiega il composto exarare come sinonimo di “comporre”.
Con gli autori cristiani la metafora agricola si inserisce in un contesto simbolico ancora più esteso, nella scia delle Sacre Scritture dove si dice ad esempio che gli amanti della sapienza devono fare come l’agricoltore che ara, semina e ne attende i frutti (Siracide 6,19). Nel Nuovo Testamento, Dio è l’agricoltore che semina le parole di Cristo nei territori del cuore (Mt 13, 1-23; Lc 8,5-8; Mc 4,1-12) e san Paolo scrive ai cristiani: “Voi siete il campo di Dio” (1Cor 3,9). I Padri dei primi secoli dicono che il vomere di Cristo sgretola la durezza dei cuori e san Gerolamo utilizza l’immagine di un Dio agricoltore che si serve della penna come di un aratro per scrivere o, meglio, “arare”, nel cuore umano. Gli stessi apostoli sono visti come buoi che evangelizzano sotto il giogo leggero e soave di Cristo.
Questo processo di acquisizione e astrazione della metafora agricola strettamente collegata ai buoi, che inizia dallo scrivere-arare sulle tavolette di cera, fino a giungere secondo san Paolo alle parole impresse sulle “tavole di carne dei cuori” (2Cor 3,3), attraversando anche i campi del sentire poetico, poteva aver lasciato delle tracce nel sapere sardo dove non mancano influssi greci, latini e naturalmente cristiani? Al punto di avere ispirato in qualche forma e in qualche misura la creatività orale della boonimia isolana? Quel singolare “scrivere a voce” con i gioghi di buoi, che pare unire l’arare e il comporre.
Secondo linguisti come George Lakoff e Mark Johnson, il luogo della metafora non è il linguaggio scritto ma il linguaggio quotidiano orale e anche il pensiero e l’agire, ossia il sistema concettuale che regola a monte tutto questo, la forma mentis di un popolo. Di conseguenza appaiono rilevanti anche la cultura orale e le tradizioni di quel popolo.
Ed è interessante notare che il termine “poesia” rimanda in latino e in greco al significato di “fare, produrre”, proprio come a collegare versi e azioni, poeti e agricoltori.
Immagine: Antonio Ligabue, Aratura con buoi 2, 1950-55