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Il Natale sibillino di Alghero (23)

Sardegna simbolica - Una rubrica dedicata alla spiritualità del popolo sardo

Natale Sibillino

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Di Lorella Marietti

Ogni anno, ininterrottamente dal Medioevo fino ai giorni nostri, la notte del 24 dicembre risuona nella cattedrale di Alghero il suggestivo Canto della Sibilla, antico rito paraliturgico eseguito su una melodia gregoriana e proclamato Patrimonio Immateriale dell’Unesco nel 2010.

 

Cosa c’entra la sibilla, profetessa pagana del mondo greco e romano, con il Natale di Gesù Bambino? È un legame che inizia nei primi secoli cristiani, quando i padri della Chiesa cominciano a scorgere parti del Logos, o Verbo Eterno, nelle manifestazioni umane antecedenti il cristianesimo.

 

Prima fra tutte la filosofia greca: ad esempio Socrate e Platone vennero considerati cristiani ante litteram da Giustino, secondo il quale la loro «aspirazione al divino» mostra che essi vissero secondo il Verbo pur senza conoscerlo. Anche la sapienza dei poeti era ritenuta intrisa di semi del Verbo: emblematica in tal senso la Quarta Bucolica di Virgilio, in cui è descritta la nascita di un bambino che «riceverà la vita degli dèi» e cambierà radicalmente il mondo inaugurando una nuova era.

 

Allo stesso modo vennero considerate profezie ispirate dal Verbo Eterno anche gli oracoli delle Sibille, raccolti nei Libri Sibillini che cominciarono a diffondersi negli ambienti cristiani del II secolo d.C.

 

Le Sibille erano sia dei personaggi storicamente esistiti, sia delle figure letterarie: ne parlano, ad esempio, Aristotele, Virgilio, Ovidio, Marziale. Esse vivevano in diversi luoghi del Mediterraneo, dell’Africa e dell’Asia Minore, e venivano consultate sulle incertezze dell’avvenire e su quesiti esistenziali. Col tempo, il nome proprio “Sibilla” diventò una definizione e fu necessario aggiungere una specificazione geografica per distinguerle le une dalle altre, le più famose erano quella di Delfi, di Eritrea e di Cuma.

 

Gli antichi autori cristiani, facendo dei parallelismi tra gli oracoli sibillini e le profezie bibliche, posero le Sibille sullo stesso piano dei profeti dell’Antico Testamento: mentre questi annunciavano il Messia ai giudei, le Sibille promettevano la venuta del Salvatore ai pagani.

 

Questa interpretazione, tramandata da Lattanzio nel suo libro Istituzioni Divine – basato sulla lista di Sibille compilata dallo scrittore latino Varrone nel I secolo a.C. – continuò con sant’Agostino (Civitate Dei), Isidoro di Siviglia (Etymologiae), Beda il Venerabile (Historia Ecclesiastica) e infine Vincenzo di Beauvais (Speculum Maius) nel XIII secolo, fino alle pubblicazioni rinascimentali di Xystus Betuleius.

 

Dalla letteratura questa tradizione si trasferì alle arti figurative: così le Sibille vennero dipinte nelle chiese e nei duomi (come quello di Orvieto e di Siena), spesso insieme ai profeti biblici, fino a giungere alle celebri Sibille collocate da Michelangelo nella Cappella Sistina, qui raffigurate in numero di cinque, mentre altrove in numero di dieci o anche dodici.

 

Poiché a ogni Sibilla era attribuito un preciso oracolo e il canto che si svolge nella cattedrale di Alghero riguarda il Giudizio universale, se ne deduce che si tratta della Sibilla Eritrea, portatrice della parola che preannuncia la fine dei tempi e il ritorno di Cristo.

 

Così, la notte della Vigilia, la nascita del Bambino diventò occasione di riflessione sulle cosiddette tre venute di Cristo: la prima in mezzo all’umanità, che si celebra con il Natale, a cui seguirà la venuta finale per giudicare il mondo, e tra le due si colloca la venuta intermedia che si ripete sempre di nuovo nel cuore dei credenti. Scrive infatti san Bernardo di Chiaravalle: «Noi conosciamo tre venute del Signore: presso gli uomini, negli uomini, a giudizio degli uomini. [ …] Il primo e il terzo avvento sono noti, in quanto manifesti; il secondo, invece, è spirituale e nascosto».

 

La tradizione iconografica della Sibilla Eritrea era presente anche nelle terre orientali nel XII secolo e questa figura è citata pure nel manoscritto bizantino del Monte Athos.

I poeti dell’epoca furono anch’essi ispirati dalla tradizione di questa Sibilla.

 

Il suo Canto, inizialmente tradotto in latino da un originale greco, forse di origine mossarabica, ebbe numerose versioni in catalano e in occitano, e si diffuse ampiamente durante il medioevo, finché nel XVI secolo il Concilio di Trento ne decise l’abolizione dai libri liturgici, ma continuò a essere praticato ad Alghero e a Maiorca, le uniche due città in cui è presente ancora oggi.

 

Il Canto della Sibilla, che ad Alghero ha mantenuto sia la continuità che la forma primitiva, è chiamato El Senyal del Judici o Signum Judicii (Segno del Giudizio), dall’incipit riportato da Sant’Agostino nel De Civitate Dei e tratto a sua volta da un testo degli Oracoli Sibillini utilizzato in un sermone dal vescovo cartaginese Quodvultdeus morto verso il 453.

 

Si tratta di un canto che non nomina esplicitamente Dio, ma annuncia un Re eterno che verrà dal cielo rivestito di carne mortale per giudicare l’umanità. La tensione non è sul giudice ma su ciò che precede la sua venuta: lo sconquasso della natura, il terrore della gente e la terra che brucia. Temi ambientali per molti versi sorprendentemente attuali.

 

Immagine: L’Oracolo della Sibilla Eritrea (Michelangelo, Cappella Sistina)

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