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Il canto a tenore come cerimonia sciamanica.

Salvatore Satta: "Sa oche, medium che mette in comunicazione il mondo reale, che continuamente rinasce, con quello degli antenati"

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Di Salvatore Satta

Fin dai tempi primordiali, la ragion d’essere di tutti i riti è il raggiungimento di un livello superiore di coscienza.

Anche il canto a tenore sardo, che non escluderei tragga origine nell’ambito del culto nuragico del Toro, eseguito nella sua interezza, cioè dal ritmo più blando all’acme ritmica, senza soluzione di continuità, arriva a questo risultato.

 

A sovrintendere completamente a tale operazione è colui che, nel canto, interpreta la ”sa oche” e che, immancabilmente, conduce i cantori e gli astanti a stati alterati di coscienza, divenendo un vero medium-sciamano che mette in comunicazione il mondo reale con quello degli antenati.

 

Nonostante non se ne abbia più consapevolezza, è inevitabile, infatti, che, agendo sul respiro, addirittura sospendendolo con apposite tecniche, arrivando a rasentare la sincope istantanea, si sperimentino fenomeni stranianti, allucinazioni, trance, estasi, sensazioni di extra-corporeità.

 

La ”voce” intona una poesia dalla metrica classica e, coadiuvata dagli altri ”pezzi” del tenore, tramite la modulazione del respiro, il ritmo tribale, il suono gutturale, tellurico, ctonio, ossessivo, raggiunge, nel ballo, livelli parossistici, fino a giungere all’inerzia respiratoria, in cui non si sente più il bisogno di respirare, le parole perdono significato e si riducono a mero pretesto per alimentare il ritmo.

 

E si è trascinati dal canto, che continuamente rinasce.

 

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