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Eleonora d’Arborea e le altre: quando fare la giudicessa era un’impresa biblica. (26)

Sardegna simbolica - Una rubrica dedicata alla spiritualità del popolo sardo

Eleonora d'Arborea dipinto opera del pittore Antonio Benini olio su tela.

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Di Lorella Marietti

Si avvicina l’otto marzo e non c’è occasione migliore per ricordare che il matriarcato sardo ha avuto, tra i suoi molti volti, anche quelli delle sue Giudicesse medievali: figure emblematiche come Elena di Gallura, Adelasia di Torres, Benedetta di Cagliari e, naturalmente, la famosa Eleonora d’Arborea.

 

Donne che, succedendo ai padri o ai fratelli Giudici (Judikes), governarono i Giudicati isolani in veste di Giudicesse reggenti, contribuendo alla prosperità di questi regni così moderni e così diversi da quelli europei di tradizione barbarico-feudale: infatti l’organizzazione dei Giudicati si basava su un patto con il popolo che esprimeva la propria sovranità con forme partecipative, volte ad eleggere i propri rappresentanti all’assemblea della Corona de Logu.

 

Una forma originale di governo che maturò a partire dal IX secolo, durando per i successivi seicento anni, e iniziò a modellarsi quando le istituzioni isolane si riformarono rendendosi autonome da Bisanzio e costituendo i quattro Giudicati della Sardegna, a loro volta divisi in curatorie.

 

A causa delle scarse fonti documentali è difficile stabilire il modo in cui si formarono: lo studioso Francesco Cesare Casula ha ravvisato una somiglianza tra le istituzioni dell’Impero bizantino e le funzioni del Giudicato sardo, mentre lo storico Francesco Artizzu ha sottolineato la differenza tra i due modi di governare.

 

Si può però notare che l’icona della Giudicessa appare unica nel suo genere. Lo storico Casula la chiama “Regina” per rendere l’idea al meglio, ma forse non basta ancora a connotarla pienamente, perché questa figura non assomiglia a nessun’altra, né a Bisanzio né in altri luoghi, fatta eccezione per un particolare territorio: quello della storia biblica. Infatti, nel Libro dei Giudici, si legge che «in quel tempo era giudice d’Israele una donna», il cui nome era Debora.

 

Debora svolgeva il compito di Giudice del popolo, in ebraico shoftà, termine che significa anche governatore, e indicava un capo militare e civile, responsabile pure dell’ordinaria amministrazione e della vita legislativa.

 

A ben vedere appaiono davvero sorprendenti le analogie tra il ruolo di Debora “Giudice d’Israele” e quello della celebre “Elianora de Arbaree, sa Iuighissa, che governò il Giudicato di Arborea dal 1386 fino alla sua morte avvenuta nel 1404.

 

Nell’Antico Testamento la figura del Giudice è suscitata da Dio quando c’è la necessità di liberare una o più tribù di Israele dalla minaccia delle popolazioni vicine: «Allora il Signore fece sorgere dei giudici, che li salvarono dalle mani di quelli che li depredavano» (Gdc 2,16)». Al tempo di Debora la vita degli Israeliti era in pericolo su più fronti: non vi era sicurezza per chi viaggiava, mancava un’autorità unica di governo e in più il nemico era alle porte: «mancavano capi valorosi in Israele, fin quando sorsi io, Debora, fin quando sorsi come madre in Israele» (5,7), madre perché si prese cura del suo popolo e lo guidò in salvo.

 

Allo stesso modo, Eleonora assume le redini del giudicato d’Arborea in un momento tempestoso per il suo popolo, dopo l’uccisione del fratello Ugone (1383) e mentre gli Spagnoli mirano a impadronirsi del suo territorio. Facendo valere il titolo di Iudicissa de Arborea, raccoglie intorno a sé i Sardi e muove battaglia ai re d’Aragona, estendendosi nella maggior parte dell’isola e siglando infine le sue conquiste con un Trattato di pace, così come Debora prende l’iniziativa di liberare il popolo dalle mani del vicino nemico Iabin, unisce le tribù israelitiche e conduce il suo popolo alla vittoria.

 

Il «Dèstati, dèstati, o Debora» (5,12) riassume bene il percorso analogo di Eleonora, la volontà di difendere il suo popolo e la sua aspirazione alla riunificazione della Sardegna sotto un unico governo autoctono, un’idea che precede di alcuni secoli la formazione degli stati nazionali modernamente intesi. Il filosofo e politologo Carlo Cattaneo definirà Eleonora come «la figura più splendida di donna che abbiano le storie italiane».

 

Ma c’è dell’altro, perché sia Debora che Eleonora si distinguono anche per l’amministrazione della giustizia e la conoscenza delle leggi.

 

Se, da una parte, il nome della Giudicessa Eleonora d’Arborea è specialmente legato alla promulgazione di un codice di leggi davvero identitario per il popolo sardo e unico per il suo tempo, la Carta de Logu, dall’altra parte il ritratto biblico di Debora la presenta mentre «sedeva sotto la palma […] e gli israeliti salivano a lei per le vertenze giudiziarie» (Gdc 4,5).

 

Nell’Antico Testamento, la palma rappresenta i giusti (Salmo 92,13) e Debora è seduta sotto questo albero perché amministra con saggezza la giustizia, valutando i problemi giudiziari, dirimendo le controversie e consigliando i capi del popolo, come compete alla figura del Giudice nei testi biblici.

 

La palma indica anche la “gloria di Dio” e in tale ottica Debora, con i suoi consigli saggi e le sue giuste valutazioni, dà gloria a Dio. Pure il proemio della Carta de Logu si apre con un riferimento religioso: «A laude de Jesu Christu salvadori nostru, et exaltamentu dessa justicia».

 

La Carta di Eleonora innova il concetto medievale di giustizia perché si rivolge all’intero popolo e non solo ad una parte di esso. Ad esempio la Magna Charta inglese regolava solo il rapporto fra il sovrano e i suoi vassalli (nobili, alto clero, funzionari di stato e ceti borghesi), escludendo i servi che erano la maggior parte degli abitanti dell’Inghilterra. Viceversa la Carta de Logu si occupa della vita di tutti i cittadini e le cittadine e anche dei rapporti fra loro, ponendosi come un vero trattato di diritto civile e penale, tanto che questa Carta venne poi osservata in tutta la Sardegna.

 

Scritta in lingua sarda perché tutti potessero comprenderla e fruirne, è ancora oggi di una modernità impressionante, sia nei riguardi della condizione della donna in materia di matrimonio ed eredità, sia in materia di salari dei lavoratori, solo per citare due ambiti, o anche in campo penale con la distinzione tra l’omicidio commesso «con animu. deliberadu e pensadamenti» e quello preterintenzionale.

 

Notevole la norma contenuta nel capitolo 21, in cui si stabilisce che la donna può rifiutare il matrimonio riparatore in seguito a una violenza carnale: in Italia bisognerà aspettare il 1981 per vedere approvata una legge in tal senso.

 

Colpisce anche il capitolo 99, in cui viene sancito il matrimonio “a modu sardiscu distinguendolo giuridicamente dal classico matrimonio con la dote: gli studiosi si sono chiesti se il matrimonio “a sa sardisca” fosse caratterizzato dalla comunione degli acquisti e dei frutti (Ercole, Marongiu, Cortese) o addirittura dalla comunione dei beni tra coniugi (Besta, Solmi, Roberti).

 

Come evidenzia lo storico Leonida Macciotta, Eleonora elaborò, ordinò e adattò diverse fonti: la precedente Carta de Logu e il Codice Rurale emanati dal padre, il Giudice Mariano, quarto di questo nome nella serie dei giudici arborensi; una Carta de logu calaritana; alcuni principi del diritto romano acquisiti tramite le Curie di Cagliari e Alghero e l’evoluzione giuridica italiana raccolta attraverso Pisa e Genova, integrando e sviluppando tutta questa materia «con un senso straordinario del limite: quel limite che sta sempre alla base del diritto e dell’arte. E per di più, con il senso della tolleranza, dell’umanità e della carità che specialmente una donna possiede».

 

Visti i molti punti di contatto tra Eleonora e Debora, viene da chiedersi se la figura biblica del Giudice possa aver ispirato la cristianissima Sardegna fin dall’inizio dei Giudicati, perfino concorrendo alla loro formazione, in un modo tutto proprio e in un delicato momento di passaggio della storia isolana, che nel IX secolo stava vivendo un periodo di difficoltà non solo interne ma anche esterne con le invasioni arabe.

 

Del resto, come precisa lo studioso Corrado Zedda, non è mai stata appurata con certezza l’origine del termine “giudice” utilizzato dai governanti sardi al posto del titolo di Arconte che lo precede.

 

Infatti la provenienza bizantina del termine è messa in dubbio dal fatto che la denominazione “Giudice”, in greco Kritis, si afferma nei territori dell’Impero bizantino non prima della fine del X secolo/inizio del secolo XI, mentre la prima attestazione sarda risale all’anno 855 in una lettera scritta a un Giudice di Sardegna da papa Leone IV.

 

Inoltre il termine Kritis contraddistingueva il rappresentante imperiale dotato di una certa autonomia nelle province dopo che queste furono riformate in “Temi” e la Sardegna non è mai stata inserita in un “Tema”, a differenza ad esempio della Puglia, dove tra l’altro uno Judex c’era ma aveva la semplice funzione di giudice di tribunale.

 

Infine sarebbe interessante scoprire se esiste un legame di qualche tipo tra lo stemma del Giudicato d’Arborea, il desdichado (albero deradicato), e la menorah ebraica, il candelabro descritto nella Bibbia, visto che i due simboli appaiono simili: il desdichado con i suoi 7 rami e le sue 3 radici, e la menorah con i suoi 7 bracci e i suoi tre piedi, spesso associata all’albero della vita.

 

Immagine: Eleonora d’Arborea, Antonio Benini, olio su tela, Palazzo Campus Colonna (Oristano).

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