Iniziamo oggi la pubblicazione di una nuova rubrica dedicata ai numerosi e millenari simbolismi della nostra Isola. Un viaggio a puntate sulle tracce di una spiritualità profonda, tramandata dalla notte dei tempi.
Pochi luoghi racchiudono come la Sardegna una così grande varietà di paesaggi, ricette, tradizioni, espressioni sacre e profane, culture e modi di pensare (centu concas, centu berrittas).
La sua stessa storia racconta molteplici storie: quella nuragica, quella fenicio-punica, quella romana, quella bizantina, quella catalano-aragonese, quella sabauda… Ma, in questo mosaico dai colori cangianti, c’è una dimensione unitaria che pare ricollegare tutto quanto: il simbolismo.
Da sempre la Sardegna parla il linguaggio dei simboli, cioè vive lo strato profondo della realtà. Nell’acqua dei pozzi nuragici e delle fonti sacre coglie l’origine della vita, nei fili di Maria Lai scorge legami da intrecciare, nelle pietre di Pinuccio Sciola ascolta la musica delle ere geologiche, davanti al focolare si lascia catturare dai racconti del fuoco (“Is contus de fogili”, come dicono a Seui).
Del resto, il simbolismo è un linguaggio universale che vale in ogni tempo e anche oggi i simboli interessano molte discipline: la storia delle civiltà, delle religioni, la linguistica, l’antropologia culturale, la critica dell’arte, la psicologia, ma anche la pubblicità e la propaganda politica. A un livello più profondo «dire che viviamo in un mondo di simboli è poco: un mondo di simboli vive in noi» (Jean Chevalier).
In Sardegna il simbolismo è presente nei miti come nelle feste, nella preparazione del pane come nelle creazioni artigianali, è un insieme di segni, gesti e codici che aiuta a comprendere il modo in cui un popolo concepisce se stesso e vede il mondo. D’altronde una delle leggi del simbolo è che si fissa dentro la storia e al tempo stesso si colloca oltre la storia. Una gemma dalle molte sfaccettature che in terra sarda riluce in modo particolare nella cultura spirituale delle diverse epoche, non solo attraverso il paganesimo e il cristianesimo, ma anche il giudaismo, come indica la presenza documentata di numerose comunità ebraiche sull’isola a partire dall’età imperiale romana, e pure l’arabismo, come mostrano le ricerche più recenti che studiano anche le fonti arabe sulla Sardegna.
Già il nome Sardegna e la sua forma sono oggetto, fin dall’antichità, di una narrazione simbolica basata sul rinvio a qualcos’altro da sé, a partire dal fatto che i contorni dell’isola assomigliano a quelli di un sandalo: ne parlano gli scrittori del mondo greco e latino – Plinio, Sallustio, lo Pseudo Aristotele, Silio Italico, Manilio, Pausania, Aulo Gellio, Solino, Esichio, Claudiano, Isidoro, Paolo Diacono – e, come evidenzia il linguista Salvatore Dedola, i nomi maggiormente tramandati sono Sandalia, dal greco Sandalios, che significa appunto sandalo, oppure Ichnusa, nome che rimanda all’impronta di un piede.
Queste notizie sono il punto di appoggio per un’apertura ulteriore verso qualcosa d’altro, che si traduce nella leggenda sarda secondo cui l’isola fu creata quando Dio prese un po’ di terra, la gettò in mezzo al mare e vi posò sopra il suo piede per modellarla, dandole così la forma del suo sandalo. Un racconto che sembra quasi riecheggiare il versetto del Siracide 43,23 «Dio con la sua parola ha domato l’abisso e vi ha piantato isole», come se la leggenda vi avesse tratto ispirazione.
È interessante notare che nella tradizione ebraica il gesto del piede indica sia il diritto di proprietà che quello di riscatto: mettere i piedi su di un terreno o gettarvi il proprio sandalo è prenderne possesso, come si legge nella Bibbia di Gerusalemme in riferimento alla vicenda di Rut e come attesta il salmo 60 in cui Dio dice «sull’Idumea getterò i miei sandali».
Questo significato ha pure un parallelo nella tradizione musulmana, che prescrive di entrare nelle moschee a piedi scalzi per simboleggiare che il suolo di questi edifici sacri non appartiene agli uomini né essi hanno alcun diritto di proprietà da far valere.
La domanda sorge allora spontanea: nell’immaginario sardo e nel suo linguaggio simbolico, l’isola sarebbe proprietà di Dio dal momento che vi ha messo sopra il suo piede? Certamente nessuno può dirlo, però si può rilevare che questa associazione di idee ha una curiosa corrispondenza con le origini stesse del Regno di Sardegna, istituito per volere di un papa, Bonifacio VIII, che lo infeudò nel 1297 a favore di Giacomo II d’Aragona, ma prima di lui già papa Alessandro III aveva affermato che la Sardegna era «dominio et iurisdictioni Sancti Petri», e nella teologia cattolica Pietro è vicario di Dio (Cristo). In tutti i casi né i due papi, né i loro successori, chiarirono mai su quali basi giuridiche rivendicassero per la Sede apostolica la proprietà della Sardegna: un diritto forse acquisito da fonti carolinge, o forse basato sul principio, enunciato da papa Urbano II, che tutte le isole appartengono alla speciale giurisdizione di San Pietro.
Tuttavia, allargando la visuale secondo le regole del simbolo e quindi evitando in questo caso di circoscrivere questa questione al solo potere temporale del papa, si potrebbe prendere in considerazione pure l’altro potere del papa, quello spirituale, visto che una delle funzioni del linguaggio simbolico è l’unione degli opposti, poiché la sua natura lo spinge a rompere i quadri tradizionali e ad associare gli estremi in una stessa visione (dal Dizionario dei Simboli).
In tal senso si potrebbe provare a leggere questa speciale giurisdizione di san Pietro sulle isole anche in una chiave spirituale, specialmente alla luce di alcuni versetti biblici del profeta Isaia, come «Ecco il mio servo che io sostengo (…) egli porterà il diritto alle nazioni (…) e per la sua dottrina saranno in attesa le isole» (42,1.4); «Diano gloria al Signore e il suo onore divulghino nelle isole» (42,12); «In me spereranno le isole, avranno fiducia nel mio braccio» (51,5).
Si può pure osservare che, all’epoca del libro di Isaia (V secolo a. C), nell’antico bacino europeo l’isola era il simbolo per eccellenza di un centro spirituale pagano: nella mitologia dei Greci e dei Romani (la cui origine è situabile tra il IX e VIII sec. a.C.), Zeus era originario dell’isola sacra di Minosse, patria dei misteri, e Apollo regnava sulle Isole dei Beati, mentre per i Celti (V-III sec. a.C. il loro periodo di massimo splendore) gli dèi irlandesi provenivano da quattro isole al nord del mondo e l’isola della Britannia era il luogo dove i Druidi andavano ad attingere alla scienza sacra e a completare la loro istruzione. Nella stessa Sardegna esisteva uno sciamanesimo precristiano e post-cristiano secondo le ricostruzioni del glottologo Salvatore Dedola e gli studi della saggista Dolores Turchi.
Tornando all’origine del nome Sardegna, si può notare che tra gli scritti greco-latini ce n’è uno che si discosta dall’associazione con il sandalo-piede-orma: è il Timeo di Platone, in cui una glossa (scolio) parla di una donna di nome Sardò, moglie di Tirreno, proveniente dall’ Asia minore, che dopo aver dato il suo nome alla città di Sardis in Lidia, dà il suo nome anche all’isola «dalle vene d’argento» (argyrofleps), Sardinia.
Il fatto che, alla fine, sia etimologicamente prevalso il nome di una donna appare assai interessante, specie se si pensa all’importanza del ruolo femminile in Sardegna, testimoniato sia dal culto della dea madre, sia dal matriarcato isolano (a dire il vero c’è anche un’ipotesi che riconduce il nome Sardinia all’eroe libico Sardo – per i Romani Sardus Pater – figlio di una divinità fenicio-punica, ma la tesi legata a Sardò rispecchia meglio la centralità della donna nella storia e nella cultura sarda).
Allo stesso modo si può segnalare un altro antico nome femminile assegnato all’isola, questa volta di origine ebraico-fenicia: Kadoššène, ossia “Madre Santa”. Come nota ancora Dedola, questo termine è rimasto in uso in Sardegna fino a tutto il ‘700, ossia fino a tre secoli fa, con la pronuncia Cadossène, ed è ricordato ancora oggi, tanto che a Nuoro lo si ritrova nelle insegne dei negozi.
Ed ecco, poi, nel 1370, quasi in una sorta di continuità ideale, l’arrivo a Cagliari di una statua in legno proveniente dal mare e raffigurante una Madonna col Bambino tra le braccia, onorata con il titolo di Nostra Signora di Bonaria e in seguito proclamata “Patrona Massima della Sardegna” da Pio X nel 1907, facendo della Sardegna “l’isola di Maria” (Paolo VI).
Prendendo in prestito le parole dello studioso Gerard De Champeaux si può concludere questo piccolo viaggio dicendo che «i simboli aggregano le realtà apparentemente più eterogenee rapportandole tutte a una stessa realtà più profonda che è la loro ultima ragion d’essere». La stessa etimologia della parola racchiude questo concetto: infatti in origine il simbolo era un oggetto di ceramica, di legno o di metallo diviso in due (per esempio i pezzi di un vaso, i frammenti di un sigillo, le metà di un monile) e si caratterizzava per il fatto che due persone, separandosi, ne conservavano ognuna una parte. Riaccostando in seguito le due parti, esse avrebbero riconosciuto i loro legami.
(Ph: Francesco Uchheddu – https://mapio.net/pic/p-45880187/)