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SARDEGNA SIMBOLICA – La scottante tradizione di Sant’Antoni ‘e su Fogu e i suoi amici.

Una rubrica dedicata alla spiritualità del popolo sardo

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Di Lorella Marietti

Come ogni anno si è consumata la millenaria tradizione del fuoco in Sardegna: il rito dei grandi falò, su fogadoni o su fogaroni, che ancora oggi a gennaio vengono accesi in tantissimi paesi sardi in onore di alcuni santi: sant’Efisio martire, tra il 14 e il 15 del mese; sant’Antonio abate, tra il 16 e il 17; san Sebastiano martire, tra il 19 e 20.

 

La festa del fuoco più famosa e diffusa è quella di sant’Antonio abate, chiamato non a caso Sant’Antoni ‘e su Fogu, come a indicarne il paradigma. Attorno al rogo crepitante acceso sui sagrati delle chiese e nelle piazze comunali, benedetto dal sacerdote, si prega per una buona annata, si fanno dei giri rituali (di norma tre in senso orario e tre in senso antiorario), si danza e si canta al suono di launeddas e fisarmoniche, si condivide il cibo, si chiacchiera, talvolta i più arditi provano a saltare il fuoco. In molti luoghi scendono in strada anche le maschere più arcaiche che anticipano il carnevale sardo: a Mamoiada, il paese dove “mascherarsi è un destino”, si mescolano alla folla gli ancestrali Mamuthones e Issohadores, a Ottana i famosi Merdules e Boes, a Orotelli Sos Thurpos, e così via.

 

Il fuoco acceso non può essere spento e viene lasciato ardere tutta la notte fino alla sua completa consumazione, dopodiché all’alba si raccolgono i tizzoni come vuole la tradizione: i carboni sono utilizzati per riaccendere il fuoco nei camini di casa (una volta servivano pure per i bracieri domestici) a protezione della famiglia e del suo benessere, mentre le ceneri sono sparse nei campi per la prosperità dei raccolti e nelle stalle per la salute degli animali. Secondo gli usi più antichi le greggi venivano fatte passare sopra le braci o fatte girare intorno alla fiamma, sempre a scopo terapeutico e protettivo.

 

Questa ritualità del fuoco è spesso interpretata come un retaggio pagano di purificazione e rigenerazione delle antiche comunità rurali, legato al rinnovamento della natura, ai cicli solstiziali e soprattutto al culto del dio sole, di cui i falò sono un’allegoria per via della luce e del calore che emanano. In realtà, senza nulla togliere al fascino di queste simbologie primordiali, si può notare che gli elementi e i gesti della festa sono perfettamente coerenti con la figura di Sant’Antonio abate, eremita del deserto nato in Egitto intorno al 250, uno dei pochi santi dei primi secoli di cui ci è pervenuta una biografia e anche un resoconto del viaggio compiuto dalle sue reliquie, accolte ovunque con grande devozione, da Alessandria alla Francia, passando per Costantinopoli.

 

Questo santo è infatti il guaritore per eccellenza, già in vita e ancor di più dopo la sua morte, specialmente durante quelle epidemie del primo millennio esemplificate nel cosiddetto “fuoco di sant’Antonio” ma di fatto assai più variegate; inoltre è il protettore degli animali domestici (da qui la consuetudine nelle chiese di benedirli per la sua festa liturgica), in virtù della sua capacità di rendere docili e mansueti gli animali selvaggi che incontrava durante la sua vita eremitica.

 

È il motivo per cui la sua iconografia lo ritrae in compagnia di un maialino domestico, animale che, come si vedrà, ha un ruolo emblematico sia nella tradizione del fuoco, sia nelle guarigioni medievali attribuite all’intercessione del santo, oltre che essere un animale importante per il popolo sardo.

 

Nei ritratti di sant’Antonio abate è ricorrente pure un fuoco che arde, elemento che si ricollega alla tradizione dei falò e si spiega in due modi, uno pratico e uno allegorico.

Da una parte, infatti, il santo era invocato nel medioevo come patrono degli allevatori e dei contadini – poiché, come si legge nella sua biografia, si vestiva con pelli di pecora e coltivava un po’ di frumento e ortaggi vicino a un fiume – due tipologie di lavoratori che hanno sempre praticato la bruciatura controllata dei campi e dei pascoli allo scopo di incrementarne ciclicamente la fertilità e rinnovarne il manto verde. Inoltre, si può ricordare che i fuochi venivano accesi anche con finalità igienico-purificatorie in occasione delle epidemie.

 

Vi è poi l’aspetto allegorico ravvisabile nella tradizionale leggenda che vede l’eremita recarsi negli inferi in compagnia del suo maialino per sottrarre il fuoco al diavolo e consegnarlo agli uomini affinché potessero essere illuminati e riscaldati: immagine simbolica della vita ascetica che comporta la discesa negli abissi del proprio cuore per vincere il male e purificare sé stessi, così da poter aiutare gli altri e migliorare il mondo.

 

Per compiere la sua missione nelle regioni infernali, il santo approfitta dello scompiglio provocato dal suo maialino, rincorso invano dai demoni, e utilizza il suo bastone di ferula: una pianta che, a contatto con la fiamma, si annerisce ma non brucia, conservando al suo interno la scintilla, cosicché Antonio può portare via il fuoco indisturbato. Un espediente che viene rievocato nel rito sardo del falò quando si utilizza sa tuva, un tronco cavo privato di rami e radici, in cui le fiamme divampano al suo interno come a ricordare il bastone del Santo.

 

La stessa uscita dei MamuthonesMaimones, i quali fanno anch’essi dei giri attorno ai falò, potrebbe esser stata suggerita dalla leggenda antoniana: difatti, secondo studiosi come Paolo Toschi, Raffaello Marchi, Giulio Fara, Pietrina Moretti e Karl Meuli, alcune maschere ancestrali sarde rimanderebbero proprio al diavolo che, oltre a essere una delle maschere europee più diffuse, è un elemento importante nell’ethnos sardo. Allo stesso modo la presenza demoniaca appare rilevante nella biografia del santo, dove ben 33 paragrafi su 94 (un terzo dell’opera) sono dedicati alla lotta spirituale contro il diavolo e i suoi tranelli, insieme ai modi utilizzati da Antonio per batterlo.

 

Paragonare la discesa agli inferi del santo, come spesso avviene, al mito greco di Prometeo che ruba il fuoco agli dèi e per questo viene punito da Zeus, non rende quindi giustizia al ricchissimo corollario simbolico di Antonio, che è anche il padre del monachesimo cristiano in Medioriente.

 

Il maialino addomesticato, simbolo del dominio di sé, si ricollega al fuoco “incanalato” che, tolto ai diavoli, non è più un tormento per l’anima ma diventa energia e risorsa per l’umanità (basta pensare all’abissale differenza che c’è tra il diabolico fuoco della collera e il puro fuoco dell’amore, o tra il distruttivo fuoco della gelosia e l’edificante fuoco della conoscenza).

Del resto,il fuoco è un elemento contemporaneamente celeste e sotterraneo, strumento di Dio e del diavolo. La caduta di livello è quella di Lucifero, inizialmente portatore della luce celeste, che precipita nelle fiamme dell’inferno, un fuoco che esclude per sempre dalla rigenerazione.

 

Poi c’è la questione della Imitatio Christi: Antonio, come tutti i santi, applica il Vangelo alla sua vita e vuole imitare Gesù, il quale ha detto: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!» (Luca 12,49). Origene tramanda pure questa parola di Gesù: «Chi è vicino a me, è vicino al fuoco». Nell’Antico Testamento il fuoco è una delle immagini di Dio e nel Nuovo si rivela come Spirito Santo. Sant’Antonio abate, nella Lettera VIII, scrive ai suoi: «Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato».

 

L’ascesi di Antonio gli conferisce non solo il dono di molte virtù che attirano pellegrini e visitatori illustri del suo tempo, ma anche carismi taumaturgici che secondo le cronache del tempo continuano dopo la sua morte: in particolare nel 1090, durante l’epidemia che colpisce la Valle del Rodano, folle di malati affluiscono nella chiesa fatta erigere per ospitare le sue reliquie e vengono registrate innumerevoli guarigioni. Erano malattie caratterizzate da eritemi vivi, a volte con vescicole molto dolorose e contagiose che bruciavano come fuoco, di cui non è facile fare oggi la diagnosi perché le descrizioni antiche sono troppo succinte o imprecise, ma è probabile che si trattasse principalmente di herpes zoster, chiamato tuttora “fuoco di sant’Antonio”, e di ergotismo cancrenoso o convulsivo, allora chiamato “fuoco sacro” o “male degli ardenti”.

 

Per ospitare tutti gli ammalati venne costruito un ospedale gestito dalla Confraternita degli Antoniani, che curavano tutti gratuitamente con un sistema misto di preghiere, sacramenti e unguenti a base di erbe officinali e grasso di maiale, tanto che il Papa concesse la possibilità di allevare porcellini intorno alla struttura.

 

La prima malattia, il cui nome deriva dalle due parole greche herpeton” (serpente) e “zoster” (cintura) per la forma allungata delle vescicole che colpiscono soprattutto il busto, è causata dallo stesso virus che è responsabile della varicella e che rimane sopito nell’organismo. È interessante notare che il termine serpente e la sintomatologia della malattia richiamano il passo biblico sui serpenti infuocati – così chiamati per il forte bruciore provocato dal loro morso – che seminano morte e terrore fra gli israeliti dal cuore indurito (Numeri 21,6), fino a che essi riconoscono i loro errori e allora Mosè costruisce per ordine del Signore un serpente di bronzo per metterlo sulla cima di un’asta, visibile a tutti, perché chiunque lo avesse guardato con fede sarebbe stato guarito.

 

Curiosamente questo racconto collima con l’interpretazione psicosomatica moderna dell’herpes zoster, che si basa su una concezione della pelle intesa come struttura di confine tra il mondo esterno e quello interno, come spazio di mediazione e interazione della persona con l’ambiente e gli altri individui (ad esempio essere “rossi dalla vergogna” o “bianchi dalla paura” sono “linguaggi” della pelle in relazione alle emozioni): in quest’ottica, poiché nel caso dell’herpes zoster si tratta di una riattivazione improvvisa del virus della varicella già contratta e superata in precedenza, la presenza di vescicole brucianti sul corpo può essere simbolicamente interpretata come un’estrema e dolorosa valvola di sfogo per alcuni conflitti interni, riguardanti soprattutto la difficoltà di riconoscere dentro di sé emozioni profonde e negative come rabbia e odio (appunto il biblico cuore indurito).

 

Traspare anche un parallelismo tra Mosè e Antonio: così come il serpente di bronzo portato dal patriarca salva dal morso dei serpenti velenosi, allo stesso modo il fuoco portato dall’eremita salva dal fuoco della malattia, e i due santi uomini utilizzano in entrambi i casi un bastone.

 

Inoltre, si può osservare che in ebraico il termine “serpente”, saraph (“colui che brucia”), ha la stessa radice di “serafino” e difatti, in un altro testo biblico, questo termine indica l’ardente angelo di Dio – ardente per l’intenso calore della carità – che purifica il profeta Isaia con il fuoco e gli toglie ogni colpa (Isaia 6,6). Gli studiosi evidenziano l’evoluzione semantica del simbolo della bruciatura, che coincide con l’evoluzione spirituale della coscienza religiosa: in origine la bruciatura del saraph-serpente è destinata a uccidere, in seguito quella del saraph-serafino ha lo scopo di purificare e illuminare. Sant’Antonio Abate sembra riunire i due significati.

 

La tradizione cristiana ha poi visto nell’immagine del serpente di bronzo una prefigurazione della potenza salvifica della croce, collegandosi al testo giovanneo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14), e inoltre Cristo è il “Re dei Serafini” per l’amore che lo ha consumato sulla croce. Anche il bastone di sant’Antonio abate è raffigurato con una croce, quella del Tau.

 

La seconda malattia, l’ergotismo, era causato da un fungo infestante i cereali, l’ergot, che provocava non solo terribili sofferenze ma spesso anche stati di confusione mentale e di delirio: da qui, verosimilmente, il nome misticheggiante di “fuoco sacro”, tenuto conto che solo in epoca moderna si è scoperto che questo tipo di fungo contiene degli alcaloidi vegetali che in certe quantità possono dare convulsioni e allucinazioni.

 

Se ne è accorto l’inventore dell’LSD, il chimico e farmacologo Albert Hofmann (1906-2008), che in una corrispondenza epistolare con l’antropologo e pioniere dell’etnomicologia Gordon Wasson confermò che l’acido lisergico è il nucleo comune alla maggior parte degli alcaloidi di quell’ergot che già nell’Europa medievale (e forse anche prima) aveva fatto sfracelli in coloro che se ne cibavano involontariamente attraverso il pane di segale.

 

La domanda posta dall’antropologo a Hoffman riguardava le visioni degli sciamani sudamericani indotte da somministrazioni controllate di funghi allucinogeni e la possibilità che anche nel bacino mediterraneo venissero utilizzate sostanze di questo tipo durante la celebrazione degli antichi Misteri Eleusini, dal momento che le fonti parlano di visioni catartiche, illuminazioni ed esperienze estatiche compatibili con stati alterati della coscienza indotti.

L’iniziazione ai Misteri Eleusini prevedeva pure il sacrificio di un animale caro a Demetra, dea delle messi: si trattava di un maialino, la cui sacralità era data dal fatto che per i Greci era stato il primo animale addomesticato.

 

Certamente nei primi secoli cristiani la cultura greca era presente ad Alessandria d’Egitto, a Costantinopoli e anche in Europa, luoghi dove fecero tappa le reliquie di sant’Antonio abate.

Inoltre, nelle culture più antiche il maiale è simbolo dell’oltretomba per l’abitudine di cercare e scavare nel terreno, così come presso i Celti (chiamati Galli in Francia) il maiale rappresenta il collegamento tra il mondo dei vivi e l’aldilà. Nella tradizione cristiana il maialino è avido e lubrico: due passioni disordinate che sant’Antonio abate ha saputo addomesticare esemplarmente, dal momento che egli è l’antitesi dell’avidità – dona tutti i suoi beni ai poveri e si ritira nel deserto, si mette a coltivare frumento e ortaggi non per sé ma per offrirli ai suoi visitatori – ed è la negazione di ogni ludibrio per la sua purezza di cuore, tant’è che in diverse raffigurazioni appare circondato da donne senza pudore che simboleggiano le tentazioni in cui non cade.

 

Qualcuno ha detto che il pensiero simbolico, a differenza di quello scientifico, non procede per riduzione dal molteplice all’uno, ma dall’uno verso il molteplice per far meglio percepire in un secondo tempo l’unità di questo molteplice.

 

Immagine: Miniatura tratta da Libro delle Ore (1430-1440), British Library – Londra

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